Cultura

Italiani, zero in condotta

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Federculture Il rapporto annuale a Montecitorio: crollo dei consumi culturali e circa il 40% della popolazione non ha partecipato a nessuna mostra, film, spettacolo, concerto. Qualche soluzione? Rendere detraibili i biglietti degli eventi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 21 gennaio 2014

Crollo, disastro, allarme. Una triade di parole che – in riferimento alla cultura – abbiamo sentito pronunciare mille volte. E poi, la sintassi della speranza: rilancio, investimento, formazione. Che però viene subito ribaltata dalla posizione bassissima – ultimi banchi in fondo – della classifica italiana in materia di consumi culturali e di sostegno finanziario da parte delle istituzioni.

Nel giorno della scomparsa di Claudio Abbado, cui è stato tributato un omaggio silenzioso da tutta la sala, a Montecitorio Roberto Grossi di Federculture ha presentato al Parlamento il volto tragico della crisi e ha disegnato qualche possibile soluzione, in un incontro gremito di «specialisti» e con l’incoraggiamento della presidente della Camera, Laura Boldrini, del presidente Anci e sindaco di Torino Piero Fassino, del giurista Stefano Rodotà, del direttore Relazioni Esterne e Comunicazione Enel, Gianluca Comin e del segretario generale dell’Accademia di Francia, Claudia Ferrazzi.

Quello che è andato in scena è stato un delitto perpetrato da killer professionisti, una lenta morte per asfissia procurata non dalla stretta sulle risorse pubbliche, ma da una precisa volontà politica, come ha sottolineato lucidamente Rodotà, riportando la barra del timone dritta dopo alcuni sbandamenti dei relatori, che invocavano la manna dei privati contro uno stato inefficiente. Rodotà ha messo un punto: basta raccontarsi la favola che i privati siano salvifici e lo stato un soggetto debole; la cogestione del patrimonio culturale, spesso, è stata fallimentare. È sufficiente riconoscerlo per andare avanti, senza più falsi miti come fardello. Benvenga l’intervento esterno dunque, ma nelle giuste proporzioni e rispettando le regole. Secondo il giurista, la vera domanda da porsi è: qual è il rapporto fra cultura come spirito critico e potere? Perché questo è il problema principe: si deprime chi produce sapere non solo per mancanza di risorse. «Il depauperamento è l’esito di una strategia». La cultura sviluppa quella «democrazia di prossimità» (e in questo senso, i comuni, gli enti locali sono perni politici fondamentali) che favorisce i progetti e lo sviluppo, questa volta sì, anche con l’intervento dei privati. «Un deficit di cultura – conclude Rodotà – è deficit di democrazia, nuove capacità, partecipazione alla cosa pubblica». Bisogna ripartire da qui.

E allora, ecco qualche dato per capire ciò che è accaduto a forza di tagli, sparizioni di progetti educativi, colpi d’ascia alla scuola, fuga dalle responsabilità collettive: il budget del Mibact – ora si chiama così perché si è accorpata anche la voce «turismo» – si è assottigliato fino a 1,4 miliardi (0,20% del bilancio dello stato), c’è stato un crollo delle immatricolazioni universitarie del 15% in dieci anni, il sud ha un patrimonio in abbandono nonostante abbia calamitato 7,4 milioni di visitatori (ma il 75% degli incassi è rappresentato da Pompei, Ercolano,la Reggia di Caserta). Le amministrazioni locali vivono in apnea. Le riduzioni drastiche dei bilanci di spesa generano impossibilità di immaginare progetti a medio-lungo termine e vuoti pneumatici di iniziative tanto che il territorio italiano ha perso la sua capacità di «attrattore». E se dall’estero cominciano a volgere lo sguardo altrove, all’interno le cose non vanno meglio. Sono diminuiti i lettori di libri (3%) e i non lettori hanno toccato il tetto del 50%. Non che gli altri campi di interesse sfoderino dati confortanti: il rapporto annuale di Federculture dice che 39 italiani su 100 non sono andati a mostre, concerti, spettacoli, cinema. Per la prima volta in venti anni di tendenza positiva e di crescita, hanno rinunciato per dodici lunghi mesi a impiegare il tempo libero in attività che producono conoscenza, unico modo per sfidare la morsa della recessione e inventarsi un futuro possibile. Il nostro indice di partecipazione culturale nazionale è pari all’8% mentre la media Ue è 18%, con in testa la Svezia. Se si aggira il fastidio della «perfezione nordica» in materia di welfare si capisce subito che lì, i cittadini percepiscono gli eventi culturali come un «bene comune», grazie anche alla spesa che lo stato sostiene per ognuno di loro: 262 euro a testa.

Qui, invece, boccheggiano gli enti locali e tracollano i musei e le fondazioni (il Reina Sofia può contaresu 42,3 milioni di euro contro i 9 del Palaexpo di Roma, di cui 58% autofinanziati). Il confronto con altri paesi immalinconisce, come è stato rilevato anche a Montecitorio. Ma qualcosa si può ancora fare, secondo Federculture. Invertire la rotta, riconvolgere nel settore quel 23% dei giovani che non studia né lavora, dare fiducia a cooperative e associazioni di giovani, riportare l’insegnamento della storia dell’arte e della musica nelle scuole, rendere detraibili fiscalmente non solo i libri, ma anche i biglietti di mostre, cinema, teatro e le spese sostenute per i corsi di aggiornamento e formazione.

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