Se, camminando tra gli scaffali di una libreria, la vostra attenzione dovesse ricadere sulla copertina di un libro dallo sfondo azzurro che ospita la sagoma incompleta di un pallone e otto mattoncini tricolore disordinatamente distribuiti, la percezione del rischio di essere travolti da un’operazione editoriale costruita sulle emozioni e sui rimpianti di un tempo lontano potrebbe essere avvertita in maniera netta e decisa. Anche perché gli elementi grafici sono lì per accompagnare un titolo (Quando eravamo felici) e un sottotitolo (Italia-Argentina 1990: la partita da cui tutto finisce) che rimandano la memoria collettiva all’estate tutta italiana di trentatré anni fa. Quella delle «Notti magiche» cantate in un rock cortese e garbato da Edoardo Bennato e Gianna Nannini.

La bella – fino ad un certo punto – stagione del secondo mondiale disputatosi nel nostro Paese, cinquantasei anni dopo quelli di epoca fascista che videro l’Italia conquistare la prima Coppa Rimet ai danni della Cecoslovacchia.

E invece, l’operazione che lo psichiatra-giallista Corrado De Rosa (1975) – scrittore che di mafie, camorre e terrorismi ne mastica e ne scrive – compie in questa sua nuova opera letteraria ha il sapore di una nostalgia immune da spiriti reazionari. Un desiderio possente che assomiglia a quello descritto da Ermanno Rea nelle prime pagine del suo ultimo romanzo intitolato, appunto, Nostalgia (Feltrinelli): «La parola «nostalgia» nasce dall’abbinamento di due vocaboli della lingua greca classica: nóstos, che significa «ritorno», e álgos, che vuol dire «dolore». Pur trattandosi di un lemma di conio abbastanza recente, la parola nostalgia sembra insomma far parte del nostro bagaglio genetico, del nostro «arcano» di esseri umani. Ogni uomo la sperimenta di continuo, perché le voci che gli giungono dal suo passato hanno sempre un fascino irresistibile». De Rosa è quindi «mostruosamente» sedotto da un passato a cui guarda con sofferenza, un tempo in cui affondano inevitabilmente le radici del nostro presente. Un’epoca vicina e lontana che le sue parole non smettono mai di interrogare lungo le 292 pagine (bibliografia d’obbligo compresa) che compongono questo libro edito da Minimum Fax.

E per capire l’Italia di allora – quella temporalmente compressa tra la caduta del Muro di Berlino e le stragi del ’92-’93, tra il mito del benessere e il trionfo sciolto da ogni vincolo del berlusconismo, tra la fine della Guerra Fredda e i nuovi (dis)ordini mondiali – sceglie una città, una data, un evento sportivo.

Il fulcro attorno cui si muove la narrazione di Quando eravamo felici è la semifinale del mondiale di Italia ’90 fra Italia ed Argentina, match che si disputò nell’allora stadio San Paolo di Napoli il 3 luglio del 1990 e seguito in Tv da «ventisette milioni e 537.000 spettatori». La prima partita che in quel mondiale la nazionale guidata dal «papà buono» Azeglio Vicini gioca lontano dallo Stadio Olimpico di Roma, nel tempio laico dell’ultimo dio pagano comparso sulla Terra: Diego Armando Maradona.

Su quel prato verde, il 29 aprile di quell’anno, battendo la Lazio, Diego e compagni erano riusciti a regalare ai tifosi napoletani un nuovo storico scudetto, il secondo nel giro di pochi anni, un anno dopo il trionfo europeo nella notte tutta azzurra di Stoccarda del 17 maggio 1989.

Quella sera di luglio, l’ultimo ostacolo che gli azzurri trovano sul proprio cammino è la nazionale albiceleste campione del mondo in carica, una squadra poco spettacolare ma difficilissima da battere, ostica e antipatica, guidata dal medico e «uomo di mondo» dalle grandi narici Carlos Salvator Bilardo, capitanata con orgoglio estremo e sagace destrezza politica proprio da Maradona. Un uomo, el pibe de oro, che davanti a flash e telecamere ricorda l’arte oratoria di Cassius Marcellus Clay poi Muhammad Ali, la sua capacità di creare polemiche e destabilizzare gli avversari nelle proprie certezze.

Nelle ore precedenti l’incontro, Maradona dirà: «Mi disgusta che ora tutti chiedano ai napoletani di essere italiani e di tifare contro la Selección. Napoli è stata sempre emarginata dal resto d’Italia, l’hanno condannata al razzismo più ingiusto». Italia-Argentina è quindi lo strumento per raccontare un’epoca storica con un punto di vista che sa essere locale e globale, uno sguardo avido di una quantità titanica di notizie, aneddoti, citazioni interdisciplinari che la scrittura torrenziale di De Rosa riesce a non far uscire dagli argini del fiume narrativo.

I centoventi minuti più gli sfortunati – ahinoi – rigori di quella sera illuminano il conducator Ceausescu e il «pioniere della statistica applicata al campo» Lobanowskij, l’Italia dell’uccisione dello studente-bracciante sudafricano Jerry Masslo e delle televendite di Roberto da Crema, i fulgori reaganiani e le politiche di Gorbaciov, la figura di Craxi e del «cerimoniere del mondiale» Luca Cordero di Montezemolo, star del calibro di Vialli, Zenga e Baggio da contrapporre agli sguardi, figli di differenti meridioni, dell’irpino «terremotato» De Napoli e del palermitano Totò Schillaci, capocannoniere con sei gol in sette partite.

Quando eravamo felici si apre con un’ucronia, una rivisitazione immaginaria di come quel mondiale andò a finire. Un esercizio letterario utile a fare i conti con un evento nazional-popolare che «non muore mai». Perché Italia ’90, come sottolineato in più punti, assurge in qualche modo a una sorta di «pagina nera» della storia repubblicana. Gli stadi «giurassici» e «disfunzionali» trasformati in «monumento all’opulenza fine a sé stessa», i «678 infortuni e 24 morti nei cantieri», la spesa di «6868 miliardi» rispetto ai «3151 previsti» sono lì a raccontarlo.

Una situazione storico-sportiva che assume le sembianze di un «fantasma» che «si nasconde» e «si insinua», reclamando giustizia. Un momento collettivo che «si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti», preparandoci a «un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate». Gli anni ‘90. La fine dei partiti. Il tramonto del sol dell’avvenire. La seconda Repubblica. La cosiddetta, fallacemente, fine della Storia.