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Istuzioni per l’uso contro la guerra

Istuzioni per l’uso contro la guerraun'opera di Keith Haring

Articolo La linea politica scorre nel corpo del radiant child

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 6 luglio 2013

È difficile non pensare a Francesca Alinovi, visitando le sale della grande retrospettiva che il Museo d’arte moderna di Parigi dedica a Keith Haring per tutta l’estate. Fu lei, infatti, a scrivere pagine molto belle e ispirate sul lavoro dell’artista americano che, a sua volta, rimase molto traumatizzato dal suo omicidio (di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario). Alla Alinovi, Haring dedicò uno dei suoi primi bagni di folla a Milano – quando assieme a LA II fu invitato a decorare il Fiorucci store di piazza San Babila, nel 1984 – ma soprattutto le rese omaggio in una splendida pagina di diario, dove viene sottolineata la forza del suo lavoro pionieristico nell’introdurre la scena New and No-wave in Italia e in Europa. E risulta centrale, nella memoria di Haring, una intervista perduta che trattava le nuove tecnologie e le mutazioni della percezione del mondo: purtroppo, di questa conversazione non esiste una traccia precisa, poiché il registratore refused to record.
Untitled del 1982 è l’immagine scelta per il poster della retrospettiva parigina e, finalmente, viene corredata da un sottotitolo pertinente, la linea politica. Una muta di cani, ma forse più iene (per il trattamento del loro manto) attraversano, ammaestrate, la figura di un uomo. L’ombelico è dilatato come fosse un cerchio di quelli usati dai domatori di circo. In un disegno del medesimo periodo, quella stessa figura agita un manganello o uno scettro per accompagnare questa gesto altamente repressivo, che oggi più che mai percorre piazze e media di tutto il mondo. Decine di anni prima del post-human di Jeffrey Deitch, dell’affermarsi dell’estetica post-concettuale, lo storyteller Haring, ragazzo della provincia americana, ricopriva gratuitamente gli spazi pubblicitari della metropolitana di New York in attesa di consigli per gli acquisti, con un arsenale di strumenti critici molto appuntiti. Istruzioni per l’uso contro guerra, nucleare, omofobia, capitalismo e una miriade di altri temi che sono qui solo meticolosamente allineati, in una (purtroppo derelitta) cronologia. Manca il grande Senza Titolo del 21 aprile 1984 (painting for Francesca Alinovi) che è un magnifico lavoro, ora nelle collezioni SammlungFer e che sarebbe bellissimo rivedere l’autunno prossimo, in occasione del tardivo tributo che il Mambo di Bologna consacrerà alla più internazionale delle sue collaboratrici. Ma questo è un problema che attiene alla riattualizzazione di quel periodo. Più che politico, sembra mortuario anche il taglio scelto da Dieter Buchart e Odile Burluraux, per il display parigino, che termina con quadretti non finiti e still life da appendere sopra i divani. Dov’è finita l’energia? Eppure Keith Haring e Francesca Alinovi erano in grado di perfezionare taglienti cosmogonie, asce di guerra sotterrate in un territorio di frontiera tra vita e arte. Alinovi costruì il suo pensiero sul residuo mao-dadaista, sui detriti delle lotte degli anni ’70, sull’estetica post-punk. È qui che innestò il cortocircuito delle nuove geografie dell’East Village.

In questa esposizione parigina, il pubblico è però costretto a focalizzare il lavoro di Haring su qualche pannello di quelli che appaiono ancora a prezzi esorbitanti nelle aste. Oggi che le retrospettive di Warhol – già Andy-Mouse nei dipinti di Keith Haring – arrivano in una opulenta Cina private dei suoi acrilici con il ritratto del grande Timoniere – è cosa certa che all’opera c’è la stessa censura. Occorre spiegare ancora perché il quadro triangolare con pila di corone per la morte di Basquiat (in mostra) non sia divenuto un pezzo centrale, di rispetto tra artisti. È piuttosto un «onore alle armi» in mostre blockbuster.
Tuttavia, bisognerebbe esigere dal sistema artistico – e in generale dalla politica che lo governa – qualcosa di più di un meticoloso regesto di opere miliardarie. Meglio ricordare che Keith Haring non ha i prezzi di Basquiat, nonostante le due esistenze post-mortem siano state regolate da efficacissimi Estate of che – dal merchandising fino ai falsi quadernetti – arrivano alle case d’asta e allineano visitatori e soldi, proprio come fanno i domatori nell’affiche dedicato allo show. E qui sta il peccato originale: in quel dio denaro che Haring cercò subito di esorcizzare nei Pop-Shop, da cui si usciva carichi di doni e in quel dollaro onnipresente che Basquiat arrotolava con elastici e intascava, quando ancora si chiamava Samo. Era un sistema artistico di globetrotters, di veri autodidatti e, in periodo di crisi, fa piacere ricordare i disegni che passavano di mano in mano. Ora, sono blindati nei cataloghi degli street artist, sulla scia concettuale di un’arte pubblica, «fatta in strada».

Francesca Alinovi metteva un impegno e una militanza in prima persona, non avrebbe apprezzato finti biopic e le mostre tipologia «Champions». Né il ricordo passato attraverso il riposizionamento di Julian Schnabel (il film su Basquiat) che ha democratizzato e perpetuato NY in una falsa mitologia. Alla base di quelle opere, invece, c’era l’urlo, la protesta vera di una generazione che faceva i conti con una disastrosa e sinistra America e di conseguenza l’orrorifico teaser degli anni dell’ultracapitalismo su scala planetaria. Nei lavori degli artisti, quell’origine la si trova ancora: erano gli anni di Ronald Reagan e Margaret Thatcher quando si cominciò a sperimentare la repressione, il soft-touch dell’individualismo e la fine della politica. Qualcosa di simile a ciò che avevano intuito i dadaisti e gli esuli politici al Cabaret Voltaire. Keith Haring lo disse chiaro in una intervista rilasciata a Mariuccia Casadio nei primissimi anni ’80: «Il mio lavoro è stato sedotto dall’immagine politica, ma sono cresciuto anche vedendo ciò che non ha funzionato. La coscienza di massa, che esisteva nei due decenni passati, si è esaurita. Adesso, le persone non pensano a niente. Altrimenti Reagan non potrebbe essere eletto. Quando sei senza potere, devi trovare un’altra linea d’attacco (…) Penso che l’unica maniera, per me, di essere politico è continuare a credere in cose semplici legate alla vita e alle persone». Alla seguente domanda sul suo successo economico, Haring rispose che ne guadagnava molti di più di quelli che gli servivano…

Una vendita di beneficenza di opere di un gruppo di artisti francesi è stata organizzata, recentemente, da Sotheby’s, per restaurare il murales che Haring aveva realizzato al Necker, l’ospedale pediatrico di Parigi. A Kenny Scharf, arrestato quache tempo fa a Brooklyn, mentre realizzava una tag, i poliziotti hanno chiesto se conosceva Banksy. Quando Haring fu arrestato sulla 58esima strada era notissimo, eppure non aveva mai esposto in una galleria. Lo conoscevano tutti, esclusivamente per i suoi gessi nel metrò. Allora, ci fu una specie di sfilata di gendarmi che volevano conoscere l’autore di questi cani, maiali, radiant childs, astronavi e croci che da mesi infestavano la metropolitana. Adesso, possiamo solo sperare che il poliziotto che teneva un disegno di Haring incollato sulla porta dell’armadietto, si sia pagato una pensione integrativa prima dell’elezione di Obama. O sia stato prepensionato prima degli arresti a Zuccotti Park.

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