Istruzioni per districarsi nello gnommero
CLASSICI DEL '900 Due i presupposti dell’opera gaddiana che guidano il Commento a "Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana" diretto da Maria Antonietta Terzoli: la non verginità della parola e l’ambizione di abbracciare da ogni lato il reale
CLASSICI DEL '900 Due i presupposti dell’opera gaddiana che guidano il Commento a "Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana" diretto da Maria Antonietta Terzoli: la non verginità della parola e l’ambizione di abbracciare da ogni lato il reale
Alla fine «è il commentatore ad avere l’ultima parola». Lo dice un pazzo, Charles Kinbote, protagonista di uno dei romanzi più bizzarri e geniali del Novecento, Fuoco pallido di Vladimir Nabokov. Lo dice un mitomane che finge di commentare il poema di un umbratile poeta americano, John Shade, per raccontare una storia che con quel testo non c’entra nulla, la fuga da una fiabesca e misteriosa terra del nord di un re sotto il quale cela la sua identità di straniero e profugo in un campus del New England. Ma la sua affermazione – provocatoria e un po’ beffarda – è sostanzialmente vera. Rovescia la natura statutariamente servile del commento in una forma di controllo sul testo. Sigilla la paradossale relazione con la parola di un morto di cui siamo al tempo stesso sudditi ed estensori potenzialmente infiniti.
Fuoco pallido affonda peraltro le radici in un’esperienza reale di Nabokov, un lavoro erudito che lo impegnò a fasi alterne tra il 1949 e il 1957: la traduzione inglese e il commento dell’Evgenij Onegin di Puškin, colossale opera in quattro volumi che ricorda molto Fuoco pallido per la struttura e il rapporto quantitativo tra le parti: 110 pagine per la prefazione, 240 per la traduzione del poema, 1087 per il commento, 109 per l’indice analitico, con un punteggio finale di 240 pagine dell’Autore e 1306 del Commentatore. È proprio questa logica delle proporzioni che mi ha fatto venire in mente Nabokov quando mi sono trovato tra le mani l’impressionante Commento a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana allestito da Maria Antonietta Terzoli: basta infatti fare due conti per vedere che le 265 pagine del romanzo di Gadda (edizione Garzanti) hanno generato 1183 pagine di commento, risultato di un lavoro pluriennale svolto dalla curatrice con la collaborazione di un gruppo di giovani studiosi, nell’ambito di un progetto finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero della Ricerca (con la collaborazione di Vincenzo Vitale, Monica Bianco, Sara Garau, Roberto Galbiati, Fabian Kristmann, Francesca Latini, Matteo Molinari, Enrico Roggia, Flavio Tuliozi, Cosetta Veronese, 2. voll., Carocci, pp. 1183, euro 120,00).
Ovviamente il cortocircuito mentale si ferma qui. La deriva interpretativa alla Kinbote non ha alcuno spazio nel lavoro accuratissimo e sempre testualmente fondato con cui Maria Antonietta Terzoli ci guida nei grovigli della scrittura gaddiana. Riferimenti, citazioni, rimandi incrociati, indicazioni precise delle fonti, strumenti bibliografici verificati: tutto il commento trasmette un’idea di solidità, di competenza, di assoluta padronanza di un sapere enciclopedico tanto ramificato ed esplosivo quanto energicamente ricondotto nei binari della spiegazione paziente, sequenziale, pagina per pagina e riga per riga.
La prima cosa che ci comunica questo straordinario lavoro, oltre a un lieve senso di vertigine, è che l’eccentrico, l’irregolare, il «barocco» Gadda è diventato a tutti gli effetti un grande classico, consacrato da un lavoro critico che ne sancisce al tempo stesso il carattere esemplare e il ruolo ufficiale in un sistema di riferimenti condivisi, secondo quello stretto rapporto che lega da sempre l’istituzione letteraria del commento alla formazione di un canone.
Le numerosissime, spesso un po’ ridondanti note del Commento occupano ovviamente la parte maggiore di questi due ponderosi volumi, e sono incorniciate tra un’introduzione generale e un apparato finale di strumenti (bibliografia, commento iconografico, indici). Quanto alla loro stratigrafia interna, per utilizzare una metafora geologica molto cara a Gadda, si possono individuare alcune vene principali: note lessicali ed esplicative; note filologiche che illuminano la genesi del romanzo o i fattacci di cronaca che ne hanno ispirato la trama; note interne che fanno interagire i brani del Pasticciaccio con altri luoghi dell’opera gaddiana; note critiche e interpretative di carattere retorico, stilistico, tematico o narratologico; e soprattutto note erudite che individuano fonti, modelli, assonanze, citazioni criptate, ricostruendo pazientemente un sistema di sapere multiplo ed eterogeneo in cui prevale ovviamente la letteratura (dagli autori latini a Dante, dai classici italiani a Manzoni, da Shakespeare ai grandi romanzieri ottocenteschi, Balzac e Dostoevskij su tutti), ma non solo: storici, filosofi, sociologi, economisti, scienziati, psicologi; e poi le guide del Touring e l’Enciclopedia italiana, le arti figurative e soprattutto la pittura, ingrediente fondamentale della cultura di Gadda e della sua potente immaginazione narrativa (basta citare l’immagine finale di Assunta con la «piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira», ricondotta alla Giuditta di Caravaggio e alla Giuditta di Artemisia Gentileschi, modelli iconografici che sembrano risolvere il giallo non tanto nel dominio dei fatti empirici ma in quello nelle immagini, dei fantasmi, delle ossessioni mentali, perché l’anima – scrive altrove Gadda – «si perde nell’immaginare, non nel compiere»).
A guardar bene, il tratto vagamente ossessivo del commento – nella sua pretesa di saturare ogni intercapedine ermeneutica del testo – è radicato in due presupposti fondamentali dell’opera gaddiana. Intanto una concezione della parola letteraria come ricettacolo di voci e intenzioni molteplici, infinitamente stratificate e contaminate: «La parola convocata sotto penna – scrive Gadda – non è vergine mai (…). Le parole nostre, pazienterete, ma le son parole di tutti, pubblicatissime: che popoli e dottrine ci rimandano». D’altro canto, una concezione della realtà come «sistema di sistemi di sistemi» che imprime alla scrittura un moto centrifugo ed espansivo, nel tentativo (ovviamente fallimentare) di abbracciare tutto, enumerare ogni aspetto del reale, inseguire l’immenso groviglio di relazioni in cui è inserito ogni fenomeno o oggetto. Come ha scritto Calvino, nei testi di Gadda «ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo».
Resta un’ultima domanda, inelubile: chi è il lettore di questo commento? Rispondere «il lettore colto e curioso, desideroso di approfondire la conoscenza di un classico del Novecento» sarebbe ipocrita e anche un po’ scorretto.
Le dimensioni, la minuzia e la specificità dei rimandi, le competenze che il testo presuppone richiedono un lettore già in parte esperto dell’opera di Gadda, capace di non perdersi in un labirinto che questo commento illumina e al tempo stesso infittisce. Con l’aggiunta di un dato materiale che finisce per condizionare l’esperienza di lettura: per questioni di diritti non è stato possibile pubblicare anche il testo del Pasticciaccio, con il risultato che il commento si presenta fisicamente svincolato dal libro di cui è al servizio.
Il lettore deve quindi numerare manualmente a cinque a cinque le righe dell’edizione Garzanti per ricostruire le corrispondenze numeriche tra romanzo e note. Procedura inevitabilmente macchinosa, che non toglie nulla al valore di quest’opera ma che ne intralcia la fruizione.
Da oggi abbiamo dunque uno strumento in più per tornare alla lettura di Gadda, sempre ammirati dalla sua abilità stilistica, divertiti dal suo genio comico, irritati dalla sua misoginia, commossi dal suo senso tragico e stupefatti dalla sua potenza visionaria. Senza dimenticare, magari, il salutare understatement con cui Calvino cercava di definire il classico: «un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso». Perché alla fine è il testo ad avere l’ultima parola.
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