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Istantanee tra sport e diritti civili

Istantanee tra sport e diritti civili

Calcio Non basta più non essere razzisti, bisogna essere anti razzisti. E' il messaggio lanciato dalla Roma a poche ore dal ritorno della serie A

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 giugno 2020

Non basta più non essere razzisti, bisogna essere anti razzisti. Il messaggio che la Roma ha affidato ai suoi canali social aggancia la Serie A – che riparte tra una manciata di ore – alla scia di endorsement che sta avvolgendo il calcio europeo nella campagna contro il razzismo, partita nelle scorse settimane negli Stati Uniti dopo l’assassinio a Minneapolis di George Floyd. Una patch sulla divisa da gioco dei giallorossi fino al termine della stagione, con esordio il 24 giugno, all’Olimpico contro la Sampdoria: un’iniziativa che segue la maglia indossata da Juventus e Milan, prima della semifinale di ritorno di Coppa Italia, qualche giorno fa, Cristiano Ronaldo e compagni con la scritta No Racism sul retro della casacca da riscaldamento, mentre sul petto dei milanisti c’era il banner Black Lives Matter. A inizio giugno era stato il Torino, al termine di un allenamento, a piazzarsi in ginocchio come il Liverpool campioni d’Europa, omaggiando il gesto – indigesto al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – di Colin Kaepernick, che quattro anni fa per mostrare pubblicamente il suo disappunto per le violenze della polizia americana sugli afroamericani decise di inginocchiarsi durante l’esecuzione prepartita dell’inno nazionale a stelle e strisce, perdendo per sempre una maglia nel campionato di football.

E QUINDI anche il calcio esprime le sue voci di dissenso. Manca l’acuto del campione, un Ronaldo, un Messi, a volto scoperto  contro i fenomeni di intolleranza, come avvenuto con Lewis Hamilton in F.1. E con la patch anti razzista della Roma il pallone italiano si mette in scia alla Premier League che una settimana fa, in vista della ripartenza avvenuta il 17 giugno, su accordo tra associazione calciatori e club ha stabilito che sulla schiena degli atleti ci fosse la scritta #BlackLivesMatter, invece dei cognomi, sino alla conclusione del torneo. Un impegno collettivo per una società globale di inclusione, sostenuto anche da simboli da anni impegnati (e anche vittime sui campi) nella lotta al razzismo, come Paul Pogba, ex centrocampista della Juventus, ora al Manchester United. E pure un segnale di vicinanza spedito dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, dove soprattutto la Nba con le sue stelle, partendo da Lebron James, si sta segnalando per un intenso attivismo politico, espresso attraverso i social network, il sostegno alle manifestazioni pacifiche per le strade americane o, come nel caso dell’ex pugile Floyd Mayweather Jr. offrendosi di pagare i funerali di Floyd.

IN ATTESA di altri attestati di vicinanza, magari più incisivi, dal campionato italiano – perché non fa mai male anche per un movimento così forte, che muove interessi e coscienze, schierarsi apertamente contro il razzismo, spesso presente sui campi della A – va ricordato che Manchester City e Arsenal si sono inginocchiate per George Floyd, nella partita che ha segnato il ritorno della Premier League.

MA IL COPYRIGHT dell’adesione a #BlackLivesMatter nel calcio europeo, appartiene alla Bundesliga, il primo dei campionati ripartiti nel Vecchio Continente. Dal 7 giugno in poi, dalla gara tra Borussia Dortmund e Hertha Berlino, i calciatori del torneo tedesco si sono piazzati in ginocchio. E particolarmente intensa è stata la genuflessione di Marcus Thuram (il figlio di Lilian, ex difensore di Parma e Juventus, autore di libri sul razzismo), attaccante del Borussia Moenchengladbach, poco dopo i fatti di Minneapolis, celebrato via Twitter dal suo club. Nella Liga spagnola, ci sono stati altrettanti gesti simbolicamente potenti,  come quello del terzino brasiliano del Real Madrid, Marcelo, in ginocchio, capo chino e pugno destro guantato di nero indirizzato verso l’alto, dopo il gol realizzato all’Eibar. La memoria è corsa verso Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico 1968. Una delle istantanee tra sport e diritti civili meglio riuscite del Novecento.

 

 

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