Avete figlioli o nipoti diretti e indiretti, siete una banale coppia cisgender, frequentate gruppi allargati omogenitoriali o amici con nidiate d’eredi? Non si può sfuggire all’inevitabile domanda di questi tempi confusi dove il vecchio ordine e il nuovo che avanza fanno a cazzotti, legioni di laureati vanno in giro per l’Europa e i ragazzi si barcamenano in malpagati lavori precari.
«Che tipo di famiglia siete?», il covo di tutte le malefatte e il simulacro dell’autorità genitoriale di fronte allo sbracamento adolescenziale. Interrogativi danzanti nella Roma spappolata e decadente di questi anni Venti, istantanee di spaesamento e incapacità d’agire in questo Per futili motivi (La nave di Teseo, pp. 352, euro 20), romanzo di debutto di Sapo Matteucci, giornalista e scrittore di enogastronomia, pluripremiato coi suoi volumi Q.B, la cucina quanto basta e C’era una vodka, nonché Sacro romano Gra, il libro scritto con Niccolò Bassetti che ha ispirato il film-documentario Sacro Gra, di Gianfranco Rosi.

AVANTI CON L’ETÀ, molto avanti nelle fughe laterali, nei giochi di parole, nell’improvvisazione teatrale, il toscano Matteucci ha solcato per un ventennio (che parolaccia!) gli ampi corridoi di viale della Letteratura, il maniero Siae, progettato dallo studio Passarelli nel quadrilatero dell’Eur, affinando il suo evidente gusto letterario, un po’ familiare un po’ d’amicizia un po’ stramberia, per scodellare queste 350 pagine, percorse da un sottile umorismo tragico, rappresentando la dissoluzione di un mondo anziano, fatto di regole obsolete, morali ipocrite, abitudini stantìe attraverso la picaresca esistenza di Costanza, terza liceo linguistico, ribelle figlia sedicenne che fa la sua personale rivoluzione con un coniglio tritatutto, orologi malpuntati e fidanzati assortiti.

E INTORTA QUESTA COPPIA genitoriale – ma anche il fratello più grande, il filippino, il nonno famoso, lo psicoanalista, il cane e i tanti altri personaggi da Mezzapensione a Obtortocollo di questa sarabanda irresistibile – travolta dall’inadeguatezza, dai sensi di colpa, dal dovere educativo, «fai un po’ come ti pare». E dove le contumelie prendono il posto delle giaculatorie verso il cielo. Profondamente autobiografico e corretto da invenzioni, il protagonista imbelle e dubbioso, chiamato Mastorna sulla scia di Zeno, Oblomov e tanti altri cultori dell’immobilismo, credeva di essere arrivato in una stagione, libera e bella, della vita.

QUEL CAREZZEVOLE continuare a dormire la mattina, quel suggestivo tramonto affrancato dal lavoro, avvoltolato nei suoi minimi piaceri quotidiani, il giornale e un cocktail, un Allegro scherzando di Rachmaninov e una pietanza da perfezionare, trovandosi a sdrucciolare inevitabilmente nella temibile ambiguità del gerundio, a galleggiare con distacco, a confrontarsi col suo declino di uomo, di marito, di padre.
Riscattata da una scrittura precipua, da uno spicilegio di parlato contemporaneo, volto a disseminare i tratti del nostro tempo, quel porto dell’ansia dove genitori e figli cercano inutilmente riparo, le proiezioni degli uni e gli ideali degli altri, quel fantasticare di poter possedere almeno la chiave d’una serratura, in realtà introvabile. «Si dice ‘era destino’ con l’illusione di saper leggere un disegno negli arabeschi arruffati della vita, quando tutto è già avvenuto».

Una vita comoda e agiata, in cui siamo dentro e di cui capiamo ben poco, percorsa da una dissipante vitalità, dalla gioia di essere al mondo, da un folgorante nirvana fatto di dribbling registrati, premonizioni, ricordi ingigantiti. Col piacere inebriante della lettura e della letteratura, che condiscono la normalità della vita di ogni giorno, col dialogo dal veterinario e la banda dello specchietto, la scuola di suore e i libri d’epoca straruminati, l’assalto dell’aspirapolvere e la tundra della rassegnazione, in una magnifica stratificazione furiosa e disperata, nel quartiere Coppedè, quello dei professionisti e dei fiumi, di grifi e gorgoni, dei clacson e delle seconde file, in questa cialtronissima capitale frenetica.