Editoriale

Israele non vuole la pace

Israele non vuole la pace

Medio Oriente L’atteggiamento di rifiuto (rejectionism) è intrinseco alle convinzioni più radicate di Israele. Qui risiede, a livello più profondo, il concetto che questa terra è destinata solo agli ebrei

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 13 luglio 2014

Israele non vuole la pace. Non c’è niente di quello che ho scritto finora di cui sarei più contento di essere smentito. Ma le prove si sono accumulate a dismisura. In effetti, si può dire che Israele non ha mai voluto la pace – una pace giusta, cioè basata su un compromesso equo per entrambe le parti.

E’ vero che l’abituale saluto in ebraico è “Shalom” (“Pace”) – quando uno se ne va e quando arriva. E, di primo acchitto, praticamente ogni israeliano direbbe di volere la pace, è ovvio. Ma non farebbe riferimento al tipo di pace che porterebbe anche alla giustizia, senza la quale non c’è pace, e non ci potrà essere. Gli israeliani vogliono la pace, non la giustizia, certamente non basata su principi universali. Quindi, “Pace, pace, quando pace non c‘è.” Non soltanto non c’è pace: negli anni recenti, Israele si è allontanato persino dall’aspirare a fare la pace. Ha perso totalmente lil desiderio di farla. La pace è scomparsa dalla prospettiva di Israele, e il suo posto è stato preso da un’ansietà collettiva che si è sistematicamente impiantata, e da questioni personali, private che ora hanno la prevalenza su tutto il resto.

Verosimilmente il desiderio di pace di Israele è morto circa dieci anni fa, dopo il fallimento del summit di Camp David nel 2000, la diffusione della menzogna secondo cui non ci sono partner palestinesi per fare la pace, e, ovviamente, l’orribile periodo intriso di sangue della Seconda Intifada. Ma la verità è che, persino prima di tutto questo, Israele non ha mai veramente voluto la pace. Israele non ha mai, neppure per un minuto, trattato i palestinesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sofferenza come una comprensibile sofferenza umana e nazionale.

Anche il campo pacifista israeliano – se pure è mai esistito qualcosa del genere – è morto anche lui di una lunga agonia tra le sconvolgenti scene della Seconda Intifada e la menzogna della mancanza di una controparte (palestinese, ndt). Tutto ciò che è rimasto è stato un pugno di organizzazioni tanto determinate e impegnate quanto inefficaci nel contrastare le campagne di delegittimazione costruite contro di loro. Perciò Israele è rimasto con il suo atteggiamento di rifiuto.

Il dato di fatto più evidente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovviamente, il progetto di colonizzazione. Fin dalle sue origini, non c’è mai stato una più attendibile o più evidente prova inconfutabile delle reali intenzioni 8di Israele, ndt) di questa particolare iniziativa. In poche parole: chi costruisce gli insediamenti vuole consolidare l’occupazione, e chi vuole consolidare l’occupazione non vuole la pace.

Questa in sintesi è la questione.

Ammettendo che le decisioni di Israele siano razionali, è impossibile accettare che la costruzione delle colonie e l’aspirazione alla pace siano vicendevolmente. Ogni attività per la costruzione degli insediamenti dei coloni, ogni roulotte e ogni balcone trasmette rifiuto. Se Israele avesse voluto raggiungere la pace attraverso gli Accordi di Oslo, avrebbe almeno bloccato la costruzione di colonie di sua spontanea iniziativa. Il fatto che non sia avvenuto prova che gli accordi di Oslo sono stati un inganno, o nella migliore delle ipotesi la cronaca di un fallimento annunciato. Se Israele avesse voluto ottenere la pace a Taba, a Camp David, a Sharm el-Sheikh, a Washington o a Gerusalemme, la sua prima mossa avrebbe dovuto essere la fine di qualunque tipo di edificazione nei Territori (Occupati, ndt). Senza porre condizioni. Senza contropartita. Che Israele non lo abbia fatto è la prova che non vuole una pace giusta.

Ma le colonie sono state solo la pietra di paragone delle intenzioni di Israele. Il suo atteggiamento di rifiuto è molto più profondamente radicato nel suo DNA, nelle sue vene, nella sua ragione d’essere, nelle sue originarie convinzioni. Lì, a livello più profondo, risiede il concetto che questa terra è destinata solo agli Ebrei. Lì, a livello più profondo, è fondata la valenza di “am sgula” – “il prezioso popolo” di Dio – e “siamo gli eletti da Dio”. In pratica, ciò viene inteso con il significato che, in questo territorio, gli ebrei possono fare quello che agli altri è vietato. Questo è il punto di partenza, e non c’è modo di passare da questo concetto ad una pace giusta. Non c’è modo di arrivare ad una pace giusta quando il gioco consiste nella de- umanizzazione dei palestinesi. Non c’è modo di arrivare ad una giusta pace quando la demonizzazione dei palestinesi è inculcata quotidianamente nelle menti della gente. Quelli che sono convinti che ogni palestinese è una persona sospetta e che ogni palestinese vuole “gettare a mare gli ebrei”, non faranno mai la pace con i palestinesi. La maggioranza degli Israeliani è convinta della verità di queste affermazioni.

Nell’ultimo decennio, i due popoli sono stati separati gli uni dagli altri. Il giovane israeliano medio non incontrerà mai un suo coetaneo palestinese, se non durante il servizio militare (e solo se farà il servizio militare nei Territori (occupati, ndt)). Neanche il giovane palestinese medio incontra mai un suo coetaneo israeliano, se non il soldato che brontola e sbuffa ai checkpoint, o irrompe a casa sua nel bel mezzo della notte, o il colono che usurpa la sua terra o che incendia i suoi alberi.

Di conseguenza, l’unico incontro tra i due popoli avviene tra gli occupanti, che sono armati e violenti, e gli occupati, che sono disperati e anche loro tendenzialmente violenti. Sono passati i tempi in cui i palestinesi lavoravano in Israele e gli israeliani facevano la spesa in Palestina. E’ passato il tempo delle relazioni quasi normali e quasi paritarie che sono esistite per pochi decenni tra i due popoli che condividono lo stesso territorio. E’ molto facile, in questa situazione, incitare e infiammare i due popoli uno contro l’altro, spargere paure e instillare nuovo odio oltre a quello che già c’è. Anche questa è una sicura ricetta contro la pace.

Così è sorto un nuovo desiderio di Israele, quello della separazione: “Loro se ne staranno là e noi qua (e anche là).” Proprio quando la maggioranza dei palestinesi – una constatazione che mi permetto di fare dopo decenni di corrispondenze dai Territori occupati – ancora desidera la coesistenza, anche se sempre meno, la maggioranza degli israeliani vuole il disimpegno e la separazione, ma senza pagarne il prezzo. La visione dei due Stati ha guadagnato una diffusa adesione, ma senza la minor intenzione di metterla in pratica. La maggioranza degli israeliani è favorevole, ma non ora e forse neppure qui. Sono stati abituati a credere che non ci sono partner per la pace – ossia una controparte palestinese – ma che ce n’è una israeliana.

Sfortunatamente, la verità è l’esatto contrario. I non partner palestinesi non hanno più la minima possibilità di dimostrare di essere delle controparti; i non partner israeliani sono convinti di esserlo. Così è iniziato un processo nel quale condizioni, ostacoli e difficoltà (posti, ndt) da Israele, sono andati aumentando, un’altra pietra miliare dell’atteggiamento di rifiuto israeliano. Prima viene la richiesta di cessare gli attacchi terroristici; poi quella di un cambiamento dei dirigenti (Yasser Arafat come un ostacolo (alla pace, ndt)); e poi lo scoglio diventa Hamas. Ora è il rifiuto da parte dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico. Israele considera ogni suo passo – a partire dagli arresti di massa degli oppositori politici nei Territori (occupati, ndt)– come legittimi, mentre ogni mossa palestinese è “unilaterale”.

L’unico paese al mondo che non ha confini (definiti, ndt) non è assolutamente intenzionato a definire quale compromesso sui (propri, ndt) confini che è pronto ad accettare. Israele non ha interiorizzato il fatto che per i palestinesi i confini del 1967 sono la base di ogni compromesso, la linea rossa della giustizia (o di una giustizia relativa). Per gli israeliani, sono “confini suicidi”. Questa è la ragione per cui la salvaguardia dello status quo è diventato il vero obbiettivo di Israele, il principale scopo della sua politica, praticamente fondamentale e unico. Il problema è che l’attuale situazione non può durare per sempre. Storicamente, poche nazioni hanno accettato di vivere per sempre sotto occupazione senza resistere. E pure la comunità internazionale sarà un giorno disposta ad esprimere una ferma condanna di questo stato di cose, accompagnata da misure punitive. Ne consegue che l’obiettivo di Israele è irrealistico.

Slegata dalla realtà, la maggioranza degli israeliani continua nel proprio modo di vita quotidiano. Nella loro visione della situazione, il mondo è sempre contro di loro, e le zone occupate nel giardino di casa sono lontane dal loro campo di interesse. Chiunque osi criticare la politica di occupazione è etichettato come antisemita, ogni atto di resistenza è interpretato come una sfida esiziale. Ogni opposizione internazionale all’occupazione è letto come una “delegittimazione” di Israele e come una minaccia all’esistenza stessa del paese. I sette miliardi di abitanti del pianeta – la maggior parte dei quali sono contrari all’occupazione – sbagliano, e i sei milioni di ebrei israeliani – la maggior parte favorevole all’occupazione – sono nel giusto.

Questa è la realtà dal punto di vista dell’israeliano medio.

Si aggiunga a questo la repressione, l’occultamento e l’offuscamento [della realtà, ndt], ed ecco un’altra spiegazione dell’atteggiamento di rifiuto: perché ci si dovrebbe impegnare per la pace finché la vita in Israele è buona, la tranquillità prevale e la realtà è nascosta? L’unico modo che la Striscia di Gaza assediata ha per ricordare alla gente della sua esistenza è di sparare razzi, e la Cisgiordania torna a fare notizia nei giorni in cui vi scorre il sangue. Allo stesso modo, il punto di vista della comunità internazionale è presa in considerazione solo quando cerca di imporre il boicottaggio e le sanzioni, che a loro volta generano immediatamente una campagna di autocommiserazione costellata di ottuse – e a volte anche fuori luogo – accuse che fanno riferimento alla storia.

Questa è dunque la cupa immagine [della situazione]. Non ci si trova neanche un raggio di speranza. Il cambiamento non avverrà dall’interno, dalla società israeliana, finché questa società continuerà a comportarsi in questo modo. I palestinesi hanno fatto più di un errore, ma i loro errori sono marginali. Fondamentalmente la giustizia è dalla loro parte, e un fondamentale atteggiamento di rifiuto è appannaggio degli israeliani. Gli israeliani vogliono l’occupazione, non la pace.

Spero solo di sbagliarmi.

Editoriale di Haaretz del 4 luglio 2014, traduzione di Amedeo Rossi

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