E’ molto alto, snello, giovanile. Lo sguardo malizioso, ironico. Insomma, un personaggio. Non a tutti piace, spesso si ha l’impressione di essere presi in giro. Tuttavia è uno dei più singolari storici che esistono oggi in Italia. Uno storico? Un genio multiforme piuttosto: docente, letterato, politico. Mario Isnenghi, veneziano, ha raccolto la varietà dei suoi scritti nel volume Tragico controvoglia Studi e interventi 1968-2022 (Ronzani Editore, pp. 500, euro 32,00), argomenti e stili diversi: e quel particolare bisturi con cui è capace di scandagliare libri e persone.

Isnenghi è un grande narratore. I suoi «ritratti», le sue osservazioni non passano mai inosservate. La sua formazione è di un letterato con una lenta ascesa verso l’impegno politico: «Nievo è nelle mie corde, sembra fatto apposta per farmi muovere fra letteratura e storia, storia e storiografia, storia e memoria». Questo libro inaugura la collana «Intrecci»: non esiste titolo più attraente e fascinoso per un’allieva avida e curiosa. Uno dei più bei capitoli del volume è il saggio L’incontro con Nievo, pubblicato a Padova nel 1968 come «introduzione» a Le confessioni, autentico capolavoro («Il mio solare Ippolito Nievo»).

Ma se nel personaggio di Carlo Altoviti Isnenghi trova il suo riflesso come in uno specchio, esiste un luogo dove un’eletta schiera di intellettuali ha trovato la sua Itaca: è l’Altipiano dei Sette Comuni. «L’Altipiano è un’isola; ma un’isola sospesa sulla pianura a mille metri d’altezza. Non rupi disabitate (…) ma un tessuto molecolare di contrade e di vite». L’Altipiano è stato un teatro di guerra e di esilio. Il suo Omero è stato Mario Rigoni Stern; ma vi hanno scritto anche Lussu, Gadda, Monelli, militari e giornalisti venuti da fuori con un altro passato e altra direzione di marcia. La guerra in Altipiano è stata anche una grande scuola di vita, a partire da tempi remoti. Non ci fu forse la guerra prima della pace? Troia prima di Odissea? Solo il viaggio, lo sconfinamento, l’avventura enfatizzano il ritorno, trasformano la rude Itaca in un paradiso fiorito: «Nei grandi capitoli epici dell’umanità, ritrovare Itaca presuppone l’esserne usciti, l’averla abbandonata per andare a combattere contro una qualche Troia».
Ma nelle variegate esperienze di Isnenghi c’è posto anche per la verve scherzosa e «Belfagor». Nella cucina dell’Arcidiavolo (2017) è forse il capitolo più gaio, dove si fronteggiano due personalità egualmente forti anche se totalmente diverse: il veneziano Isnenghi e il barese Carlo (Lallo) Ferdinando Russo, erede della celebre rivista «Belfagor» fondata dal padre, l’italianista Luigi Russo. Sedotto dalla personalità singolare e da una certa qual sfrontatezza di Isnenghi, Lallo Russo attira il giovane nel suo regno belfagoriano, affidandogli dapprima il compito di ritrarre usi e costumi del lontano Nord, e poi promuovendolo alle famose «Noterelle e schermaglie» in cui Isnenghi poteva dare larga prova di malizia e di spirito. Da Bari al Veneto, un susseguirsi di telefonate, fax, lettere, cartoline. Lallo Russo sempre più autoritario e «padrone del vapore», Mario sempre più sicuro di sé e della sua penna brillante. Eppure, nell’epico duello, Mario uscirà sconfitto poiché Lallo, forse corroso da una sottile invidia, dopo molte segrete promesse, sceglierà di chiudere «Belfagor» (2012) piuttosto che lasciarla a Mario Isnenghi.

Risaliamo ora sull’Altipiano per ritrovare (conferenza tenuta l’anno scorso a Padova: Crescere e formarsi al tempo del fascismo) Luigi Meneghello, uno dei migliori testimoni di un trapasso generazionale. Arrogante, egocentrico, con un pizzico di pura cattiveria, Meneghello oscilla tra la destra e la sinistra. Siamo nel torpido periodo che intercorre tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Germania e una sola parola d’ordine: ricostruire! Tutto e subito. E già alle porte del lugubre palazzo di Norimberga, tra arringhe e forche paurose, incominciano a fiorire le violette. L’Italia si lecca le ferite a modo suo (come sempre è avvenuto). Per Isnenghi ha inizio quella ascesa che lo trasforma in storico/politico, acuendo sempre più il suo spirito trasgressivo. Per un’Italia poco coesa e soprattutto ancora imbevuta dall’educazione fascista, gli anni 1940-1943, sono cruciali. Meneghello vince i Littoriali: è l’ultimo atto della sua vita «di prima». D’ora in poi diventerà, con Nuto Revelli e Rigoni Stern, testimone del trapasso nel dopoguerra. Intanto Isnenghi, sotto la guida del «grande linguista» e «organizzatore culturale» Gianfranco Folena, ha formato un nuovo gruppetto di storici/politici/intellettuali e sta preparando il suo capolavoro: Il mito della Grande Guerra (1970), più volte ristampato e mai ritoccato, arricchito nel 1989 di una lunga postfazione raccolta in questo volume di Ronzani.

Siamo alle soglie del Novecento. Un ventata scuote l’Italia, non ancora immemore del passato: l’Impresa di Fiume, lo squadrismo. Per Gabriele D’Annunzio, che ha l’animo del combattente, l’occasione è d’oro. Non importa se non è più giovane. Smilzo, elegante nella agognata divisa, raffinato oratore che incanta i «suoi» Legionari (mai alzare il tono della voce!), creatore di motti famosi che farà stampare su fazzoletti colorati – ecco il difensore di «Fiumenostra» e «Fiume d’Italia». L’Impresa fallirà, che importa. D’Annunzio ha ormai composto la sua Ode più celebre.

Sceso dall’Altipiano, Mario si trova immerso nel caos di un’Italia disorientata. Ma siamo ancora in Veneto, il Veneto della grande e piccola fede («Il Veneto potrebbe fornire una mappa di come si combina la geografia religiosa e la geografia politica»). Isnenghi, senza abbandonare il filo conduttore della letteratura, ha imboccato gli impervii sentieri della politica. Lo stile cambia. La malizia si vela di amarezza. Meneghello confessa di essere in preda a una «crisi esistenziale». Qualche malinconia serpeggia ancora (Bontempelli, Pavese), Ma quando Benito Mussolini fa risuonare la sua voce tonante attraverso le pagine del Popolo d’Italia, possiamo dire che il movimento è già di regime.

La raccolta degli scritti di uno studioso di solito riunisce, oltre ai contributi più importanti, anche gli interventi cosiddetti occasionali (talvolta, inevitabilmente, ripetitivi): dal capitolo finale di questo volume vorrei scegliere il «ritratto» del Conte Novello Papafava. Di idee liberali, coraggioso, capace di ospitare in ali separate del suo palazzo i ricercatissimi Marchesi e Biggini, illustre rappresentante di un’aristocrazia che evitava di celare il volto sotto la baùta, protagonista impavido di pericolose imprese – ecco che mi si palesa il viso del letterato/storico/ politico Mario Isnenghi, veneziano senza baùta; e me lo raffiguro mentre compone quell’oscuro, confuso periodo tra le due Guerre fabbricando, insieme al Grande, anche il suo personalissimo mito.