Alias Domenica

Ishiguro, dare voce a un robot rende più lampante ciò che ci fa irripetibili

Ishiguro, dare voce a un robot rende più lampante  ciò che ci fa irripetibiliChantal Joffe, «Vita, Alba e Esme», 2009

Intervista L’ultimo romanzo dello scrittore inglese, «Klara e il sole», in uscita martedì da Einaudi, si misura con una bambola, che è frutto dell’Intelligenza Artificiale: verrà acquistata da una bambina, e la amerà per sempre

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 9 maggio 2021

Se una delle sfide più decisive che ogni scrittore si trova ad affrontare sta nel rendere vivi sulla pagina i propri personaggi, una prova di equilibrio ben più ardua è dare credibilità a un essere artificiale proiettandolo nella quotidianità della dimensione umana e mantenendolo al tempo stesso fedele alla sua natura di artefatto. La tentazione di sondare questo confine, senza varcare le frontiere della fantascienza ma semplicemente rendendo parte del nostro mondo ciò che esiste per ora solo nei confini di un laboratorio si è già tradotta, negli ultimi anni, in romanzi di notevole qualità: Ian McEwan ha dato voce, in Macchine come me, a un robot dotato di fattezze indistinguibili da quelle di un uomo, capace di giudicare, amare e dunque tradire; Don DeLillo ha immaginato l’accesso a una seconda vita tramite sospensione criogenica del corpo, alla temperatura che i fisici chiamano Zero k; e ben prima di loro, nel 2005, Kazuo Ishiguro ha ambientato una commovente storia d’amore, Non lasciarmi, nei confini di un college popolato di ragazzi che si scoprirà essere cloni, la cui ragione di vita è diventare donatori di organi.

Ora, lo scrittore inglese torna a quell’esperimento severo e venato di cupezze da una prospettiva decisamente più rasserenata, dando voce nel suo ultimo romanzo a una sorta di bambola robotica, costruita e istruita per servire da Amica Artificiale alla fortunata bambina che ne entrerà in possesso. L’incipit straniante, senz’altro la parte più bella di Klara e il sole (traduzione di Susanna Basso, pp. 269, e19,50) descrive gli interni di un negozio di automi dal punto di vista di uno di loro.

Più perspicace e più osservatrice degli altri, Klara è un robot dotato di profonda empatia e di senso di fedeltà che, una volta diventata l’oggetto del desiderio di una bambina, sentirà di appartenerle per sempre. Come quasi tutti i figli di famiglie abbienti e illuminate, la piccola Josie, futura proprietaria di Klara, è stata sottoposta a un editing genetico che ne ha potenziato le facoltà; qualcosa tuttavia deve essere andato storto, perché la bambina è fragile, spesso malata, e la madre che teme di perderla, come ha già perso l’altra sua figlia, ora investe su Klara non soltanto perché faccia compagnia alla bambina ma perché ne studi ogni movenza e si immedesimi nel suo animo, così da poterla sostituire quando lei morirà.

Prima di comprarlo, la madre interroga il robot, le chiede di riprodurre la camminata di Josie per vedere se si è accorta della leggera incertezza che le rallenta il passo. Klara se n’è accorta. La donna la incalza: «Come definiresti il suo tono di voce?» Klara azzarda: «Quando parla la sua voce rientra in un registro fra il la bemolle sopra il do centrale e il do all’ottava superiore». Passato l’esame, comincia l’avventura della bambola nel mondo: qualcuno tenterà di mortificarla ricordandole la sua natura di macchina, qualche odioso umano migliorato dall’ingegneria genetica oserà paragonarla a un aspirapolvere, ma perlopiù Klara verrà amata. Passerà le sue giornate con Josie e con l’amico Rick, il ragazzino con cui la bambina è cresciuta e cui sembrerebbe destinata, nonostante lui non sia stato «potenziato», e il suo futuro non preveda che sviluppi altre capacità oltre quella di far volare droni in forma di uccello, che egli stesso ha costruito. Come una favola infantilmente crudele, il romanzo troverà il suo epilogo e Klara il suo posto nel mondo, a misura dei buoni sentimenti che gli umani hanno proiettato nella sua mente artificiale, forse prelevandoli dalla propria e poi dimenticando di riprenderli indietro.

Ishiguro è magistrale nella descrizione del negozio dove una materna figura di Direttrice impartisce ai robot regole di condotta e di modestia; e commovente quando si immedesima nelle loro speranze di guadagnare la postazione in vetrina, dove non solo ricevono il nutrimento diretto del Sole, alla cui energia si alimentano, ma fanno esperienza del fuori che li attende, osservano i passanti, e con discrezione simulano nonchalance quando un potenziale compratore li adocchia, per poi abbandonarsi all’eccitazione febbrile del sentirsi prescelti.
Non è tempo di incontri, non ancora: parliamo con Ishiguro del suo romanzo al telefono, quella che segue è la trascrizione della nostra conversazione registrata.

Klara, la bambola robotica protagonista del suo romanzo, esordisce così: «Quando eravamo nuove…». Sono parole che rimandano a un suo titolo di vent’anni prima, «Quando eravamo orfani», ambientato a Shangai, agli inizi del ‘900. Mi domando se il nesso è voluto, e se questo mondo di bambole abbia a che fare con la sua infanzia giapponese.
Non avevo stabilito questo collegamento, ci penso adesso. E ricordo che quel titolo, Quando eravamo orfani lo scelsi solo molto dopo avere finito il libro, come esito di una lunga titubanza. Avevo optato prima per The English detective e durante tutto il periodo in cui scrivevo restai di quella idea. Diversamente da quanto accadde con altri romanzi, Never let me go (Non lasciarmi), per esempio, il cui titolo mi sembrò provenire naturalmente dall’interno del romanzo, Quando eravamo orfani venne sostituito al titolo precedente abbastanza tardi, non lo avevo mai pensato come una frase già incorporata a fondo nel romanzo. Quanto alle mie memorie di infanzia, non saprei dire se siano implicate, direi piuttosto che Klara ha a che fare con le proiezioni degli adulti, i quali temono che i loro bambini si sentano soli e quindi gli regalano dei giocattoli, o degli animali.

In effetti, almeno all’inizio del libro, Klara appare piuttosto come una bambola a dimensione umana…
Anch’io la penso così, e direi appunto che il rapporto tra Klara e la ragazzina che l’ha comprata per tenerla con sé sia più vicino al legame emotivo di un bambino con i suoi giochi. Del resto, come lei sa, l’idea mi venne dalla scrittura di un piccolo libro per bambini tra i cinque e i sei anni: in questa versione Klara avrebbe dovuto essere piuttosto un piccolo cane, comunque un animale per bambini. Poi quella storia si sviluppò, ma ne resta l’impianto originario. Alcune volte regaliamo ai bambini dei giocattoli perché assolvano a funzioni educative, ma sebbene non ci piaccia pensarlo è anche vero che deleghiamo loro il compito di fare compagnia ai nostri figli. Perché ci sostituiscano un po’ e non si sentano abbandonati.

Man mano che andiamo avanti nel romanzo diventa chiaro il fatto che la madre di Josie vorrebbe istruire Klara affinché somigli sempre di più alla figlia, minacciata da una malattia, in modo che possa sostituirla quando Josie morirà. Questo tema della sostituzione era già presente in «Non lasciarmi», i cui personaggi sono cloni allevati per donare organi di ricambio a chi ne necessita. Entrambi i libri, più che situarsi nel futuro, descrivono una forma di «presente alternativo»: così lei disse quando parlammo del romanzo precedente. Quali differenze tra i due libri le appaiono ora più evidenti?
Mentre lavoravo a Non lasciarmi ero più consapevole di stare usando gli strumenti di un determinato genere romanzesco. Come le dissi allora, avevo provato a scrivere il libro già due volte negli anni precedenti, ma non mi riusciva di tirare fuori la storia che avevo in mente. Ci arrivai soltanto quando mi venne l’idea di rigirarlo in una Science-Fiction Story. All’inizio, i miei personaggi erano ragazzi come tutti gli altri, ma poiché la trama non funzionava, pensai di mettere in scena un presente alternativo in cui questi ragazzi si rivelavano essere dei cloni. Allora ero consapevole di adottare quel dispositivo romanzesco e le sue tecniche, mentre quando cominciai a scrivere Klara e il sole non feci altro che riversare nella trama il mio preesistente interesse nell’Intelligenza Artificiale e nella possibilità di servirsi di editing genetici. Proprio l’avere scritto Non lasciarmi fece sì che venissi invitato ai piccoli seminari organizzati dalla nostra Royal Society in tema di Intelligenza Artificiale, e lì conobbi molti scienziati con i quali ebbi un certo numero di conversazioni, riversate in una cartella piena di appunti, mentre gli scaffali, qui nel mio studio, si riempivano di libri dedicati a questo genere di problemi. In un certo senso, Klara è una sorta di replay di Non lasciarmi in versione ottimistica. Da una parte desideravo esplorare ancora questo genere di territorio, dall’altra intendevo adottare una prospettiva diversa. Ed è questa la più grande differenza fra il romanzo precedente e Klara: a lei permetto di mantenere la sua fede nella presenza di qualcosa di buono fino alla fine del libro, le consento di non vedere distrutte le sue convinzioni nel potere nutritivo del Sole, per esempio, e in tutto ciò che ne deriva. I protagonisti di Non lasciarmi, invece, nutrono la speranza di ottenere un trattamento speciale in quanto profondamente innamorati; ma questa loro fede viene frustrata, i fatti dimostrato che nelle loro convinzioni non c’è nulla di vero, così non resta a questi cloni che fronteggiare l’amaro destino al quale sono stati consegnati.

I suoi romanzi si affidano a una serie di temi ricorrenti, per esempio come gestire la memoria, o come avere a che fare con i nostri errori, e forse – più recentemente – come superare i limiti delle facoltà umane. Le sembra sia cambiata la sua prospettiva su questi stessi temi, nel corso del tempo?
Tutte le volte in cui comincio un nuovo romanzo lo sento come la naturale prosecuzione del precedente, e spesso quando sono alla fine mi sembra di non avere ben centrato gli obiettivi nei quali mi ero impegnato e comincio a pensare di svilupparli meglio in quello nuovo. È perciò che ci torno su. Più ancora che presentare temi ricorrenti, mi sembra che i miei romanzi siano ripetizioni l’uno dell’altro: penso in particolare al secondo, Un artista del mondo effimero e al successivo, Quel che resta del giorno. Sono sempre sorpreso dal fatto che i lettori non mi accusino di avere scritto lo stesso romanzo due volte, uno ambientato in Giappone l’altro in Inghilterra. L’illusione che fra un libro e l’altro abbia compiuto chissà quale salto in avanti è dovuta solo al fatto che i lettori restano sempre troppo letteralmente attaccati alle ambientazioni: al setting giapponese in un caso, inglese nell’altro; in realtà le due storie sono molto simili. Effettivamente, la prima parte della mia carriera di scrittore torna sui temi cui le accennava, ovvero come avere a che fare con i nostri ricordi, e come fronteggiare i nostri sbagli; ma adesso mi pare di essere in un periodo in cui quel che più mi interessa è la relazione tra la memoria e il sogno. Nel mio romanzo precedente, Il gigante sepolto ho tentato invece di paragonare la lotta per la memoria individuale, che riguarda l’anziana coppia protagonista, con la memoria storica delle nazioni. Mi domandavo, in altri termini, se sia sempre una buona idea ricordare, o se invece questo non si risolva spesso nel riportare a galla violenze che sembravano sepolte, riaprendo antichi conflitti. È un problema che in Klara non è presente, ma sul quale tornerò nel mio prossimo libro, dove riprendo proprio la questione dell’opportunità di dimenticare quando è in gioco l’equilibrio fra i diversi paesi.

Torniamo all’ultimo romanzo: man mano che si va avanti, si rende più evidente il fatto che Josie, la bambina cui Klara è destinata, soffre di una qualche malattia; ma non si capisce bene quale…
Ho dovuto prendere una decisione circa l’addentrarmi o meno nei dettagli della malattia di Josie, e mi sono detto che non era nei miei obiettivi dire più di tanto. Così, per quanto ho potuto immaginare, Josie soffre gli effetti dell’editing genetico cui è stata sottoposta per potenziare le sue capacità. Probabilmente l’opinione pubblica è diventata via via più consapevole di questi problemi, soprattutto da quando Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna hanno ricevuto il Nobel per la chimica grazie alla loro scoperta di un metodo per l’editing del genoma, che spero possa aiutare in campo medico, se è vero che il nostro orizzonte prevede un moltiplicarsi di pandemie. Nel mio romanzo i bambini si avvantaggiano di una tecnica di potenziamento che somiglia a una sorta di intervento di cosmetica sui geni: non me ne sfuggono i rischi, né i possibili sbocchi in una industria per rendere i ragazzi più atletici o superiori da un punto di vista neurologico, con tutte le enormi ricadute che tutto ciò avrebbe sulla organizzazione sociale. Ma è già dei nostri giorni il fatto che alcuni pazienti ricevono un editing genetico capace di intervenire sulle cellule malate, in certi tipi di leucemia. Ora, questo riguarda persone già molto malate e dunque preparate a eventuali risvolti perversi delle cure, è vero. Josie potrebbe farne parte, e perciò avere ricevuto un intervento sui geni, che ne potenzi le difese.

Lei ha detto in passato che uno dei suoi obiettivi romanzeschi era trovare un lessico intonato alla nostra generazione per affrontare la radicalità dei problemi che hanno nutrito la letteratura del XIX secolo. Crede di esserci riuscito?
Mi ricordo che ne abbiamo parlato mentre ripercorrevamo le pagine di Non lasciarmi, perché pensavo che, portando sulla scena dei cloni, quel romanzo avesse più a che fare dei miei precedenti con questioni relative alla natura dell’anima umana. E, ammesso che ne abbiamo una, cosa significhi. A quel tempo, e di nuovo adesso mettendo in scena dei robot, intendevo suggerire come oggi sia molto difficile affrontare questo tipo di questioni tramite personaggi contemporanei, che non vivono in quel genere di universo religioso bensì in un mondo a dimensione scientifica. E anche se sarebbe perfettamente possibile creare ancora personaggi religiosi, farli parlare come uno dei Karamazov davanti a una tazza di tè sembrerebbe poco in sintonia con il mondo contemporaneo, anche con quello della finzione. Perciò, suggerii che è più facile ricorrere a una distopia o a effetti già studiati della Science-Fiction, introducendo personaggi che sono il frutto della Intelligenza Artificiale, perché allora la domanda su cosa renda gli individui umani speciali e diversi dagli altri animali o dalle macchine viene in superficie molto naturalmente. Davanti a cloni o a robot ci viene spontaneo chiederci cosa sia quel qualcosa di inafferrabile a qualsiasi tipo di indagine strumentale, e se questo qualcosa sia nell’ordine del senso, e se questo ci renda unici, diversi da tutti gli altri e dunque irriproducibili. Come sarebbero eventualmente destinate a cambiare le nostre relazioni con gli altri nel momento in cui si scoprisse che siamo replicabili? Se non c’è nulla in noi a renderci speciali che senso avrebbe amare un determinato individuo invece di un altro? Quando metti in scena degli esseri artificiali, queste questioni vengono a galla da sole, non c’è bisogno di far sedere i personaggi e metterli a discutere con un Grande Inquisitore.

A un certo punto, lei scrive che Klara vede delle pecore sospese a una certa altezza da terra, protendersi verso l’erba senza riuscire a toccarla. È una visione curiosa: sono anch’esse dei robot?
Klara non è dotata di alcuna profondità mnestica, nella sua testa non c’è quella conversazione interiore che avrei potuto trascrivere se avessi messo in scena personaggi umani. In particolare, quando va a portare la sua preghiera al Sole, avevo bisogno che esprimesse le sue emozioni attraverso le immagini che ricorda di avere visto, figurazioni che vanno alla deriva nella sua testa, e si dividono per lei molto sommariamente in positive o negative, in speranze e paure. Non dobbiamo dimenticarci che Klara è una macchina giovane, il suo range di memoria è limitato, e anche le sue associazioni fra quanto ha visto e i suoi sentimenti è possibile che non stiano tanto insieme. Nel fienile si trova a fronteggiare il buio, qualcosa di pauroso, e il ricordo visuale di queste pecore le suggerisce invece armonia, felicità: non è molto realistico che queste pecore stiano lì sospese senza riuscire a raggiungere l’erba, lo so; ma non sono robot, funzionano piuttosto da aggancio con un ricordo felice, che rischiara un momento di grande incertezza, per Klara, circa la possibilità che il sole soddisfi le sue preghiere.

Un altro elemento interessante è il fatto che Klara a volte scompone il suo campo visivo in una serie di riquadri. Accade quando si sente sotto pressione, come se l’essere sottoposta a un determinata tensione le impedisse di tenere insieme le cose. È questo che intendeva suggerire?
Una delle chances che mi sono state offerte dal fatto di mettere in scena un personaggio non umano è che questo mi ha permesso di usare elementi di una certa tecnica narrativa senza farla apparire pretenziosa o troppo eccentrica. Se avessi messo in campo una voce narrante umana, non si sarebbe capito perché mai dovesse vedere le cose come le vede Klara, e perché sarebbe dovuta restare fedele a determinate credenze. Anche se nessuno di noi saprebbe dire come una macchina vede le cose, adottare il punto di vista di un robot serve anche ai lettori, di solito abbastanza conservatori, per permettersi di proiettarsi in una situazione più aperta, che consenta loro di accettare quanto non sarebbe normalmente credibile. Così, tutto sembra avere un senso.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento