Isgrò: cancello Virgilio perché lo sento sulla mia pelle…
Classico e cancel culture: Isgrò Una conversazione bresciana con l’artista siciliano, in occasione dell’esposizione «Isgrò cancella Brixia», e del dramma «Didone Adonais Domine»
Classico e cancel culture: Isgrò Una conversazione bresciana con l’artista siciliano, in occasione dell’esposizione «Isgrò cancella Brixia», e del dramma «Didone Adonais Domine»
Emilio Isgrò nel corso della sua carriera artistica ha ‘cancellato’ simbolicamente di tutto: le leggi razziali, il debito pubblico, la costituzione italiana, il coronavirus e la guerra. E naturalmente i classici. Lo incontriamo a Brescia, per l’inaugurazione della mostra Isgrò cancella Brixia (a cura di Marco Bazzini, fino all’8 gennaio 2023) e per la prima al teatro romano del suo dramma Didone Adonais Domine.
Inevitabilmente, da curatrice delle sue opere teatrali, avvio la conversazione parlando di teatro e di questa Didone, che suona ancor oggi attuale benché scritta negli anni ottanta, poco dopo le drammaturgie di Isgrò per Gibellina. Lì il sindaco Ludovico Corrao voleva far rinascere la città ‘ cancellata’ dal terremoto, e Isgrò aveva cancellato e riscritto l’Orestea di Eschilo come «trilogia siciliana» (Emilio Isgrò, L’Orestea di Gibellina e gli altri testi per il teatro, Le lettere, 2011).
Anche oggi a Brescia Isgrò ricorda il suo debito di riconoscenza verso Corrao, per avergli concesso quella libertà assoluta che poi ha sempre mantenuto: per lui, sottolinea, cancellare i classici – testi o monumenti che siano – è da sempre un atto creativo, non certo censorio o distruttivo, è un tributo che nasce dalla conoscenza e dal rispetto, in un dialogo e rapporto dialettico, privo di vincoli o soggezione.
Con queste parole ci mostra a Brescia le cancellature che si moltiplicano, si rincorrono, si richiamano in più luoghi e su più livelli, testuali e visivi: il dramma volutamente intreccia contenuti anche scabrosi da cronaca nera (adulterii, omicidii, tossicodipendenze) in una libera riscrittura di quella stessa Eneide che fa da sfondo – come testo parzialmente cancellato – alla silhouette della statua romana divenuta simbolo della città (Emilio Isgrò, L’incancellabile Vittoria, stazione della metropolitana Brescia FS). E Virgilio con le sue api ispira lo sciame virtuale in mostra al Capitolium, adiacente al teatro romano, in una ideale contiguità di luoghi e ispirazione. Anche nella romana Brixia, Isgrò non può dimenticare la Grecia: «Brescia come Atene» è il titolo che campeggia nelle sale di Santa Giulia.
Qui ci accoglie un Discobolo di Mirone percorso da una fila di formiche ed emblematicamente privo del braccio che regge il disco: come se lo avesse lanciato, spiega Isgrò, lo troviamo nella sala successiva a terra, accanto a grandi tele che riproducono le pagine ingrandite – in parte ‘cancellate’ da campiture bianche – di un libro illustrato con monumenti dell’Acropoli di Atene, luoghi simbolici come Maratona, immagini di vita quotidiana. Isgrò ci invita a guardare i lati oscuri della cosiddetta ‘età dell’oro’ periclea – lo sfruttamento degli alleati e degli schiavi – ma anche i suoi pregi, che tiene a ricordare: «la società civile protegge gli artisti scomodi e le voci critiche» (e qui ci viene in mente il commediografo Aristofane), «li coltiva e li onora».
In questo chiaroscuro, non nel candore accecante ma finto dei marmi classici, non nel buio della censura, riconosciamo un filo conduttore della carriera di Isgrò come artista, poeta e drammaturgo: in Sicilia ha respirato la cultura greca sin da bambino, ben prima di studiare greco e latino al liceo, come ammette con la consueta autoironia: «Nascere all’ombra di un tempio o di un teatro greco mi ha reso automaticamente più colto che se fossi cresciuto in Texas, sotto una pompa di benzina. I classici per un siciliano sono un obbligo, come per i monoteisti è un obbligo Dio. Non si scappa. Da quelle parti devi conoscere il logos, prima di tutto: en arché en o logos. In latino sarebbe in principio erat verbum, ma io preferisco la versione greca» (non a caso, ricordo, questa citazione biblica ricorre nel suo Agamènnuni, primo dramma della trilogia di Gibellina). «La parola dà inizio a tutto. E se Dio stesso crea il mondo con la parola come possiamo noi farne a meno? Per me, nato e cresciuto nella terra del sofista Gorgia, la parola viene prima di tutto, è strumento delle differenze umane, serve a comunicare le ragioni dei forti e dei deboli» (e qui ripensiamo ad Aristofane, ai due discorsi personificati – migliore e peggiore, giusto e ingiusto – che sostengono tesi opposte nelle Nuvole).
Questa fede profonda nella parola accomuna tutte le sue opere visive, poetiche e drammaturgiche, e sfugge a ogni etichetta, definizione, stereotipo: come Ulisse nell’Odissea dice al Ciclope di chiamarsi «Nessuno», lui intitola Dichiaro di non essere Emilio Isgrò una delle sue prime installazioni – scambiata per un’opera letteraria, e candidata a un prestigioso premio – dove una serie di finte dichiarazioni altrui negano le sue caratteristiche identitarie.
Chi è dunque Emilio Isgrò? Un cancellatore o un anti-cancellatore? E come si pone rispetto ai classici? «Non vorrei passare – mi risponde – per un cultore dei classici, un conservatore, anzi: io li sento sulla mia pelle come se fossero contemporanei. Per questo non mi riconosco nel citazionismo, non mi appartengono le tecniche di appropriazione indebita dei classici». Agli omaggi smaccati, ai tentativi di ‘cancellare’ i classici per distruggerli, Isgrò contrappone il suo stile ironico, obliquo, dialettico: «Si sale sempre sulle spalle dei giganti. L’importante è non addormentarsi, su quelle spalle!».
Concludiamo la nostra conversazione con un aneddoto che ha per noi valore di premonizione: la sua prima esperienza di lavoro, quand’era ancora al liceo, fu di «aiuto-regista, aiuto-scenografo e tuttofare» per lo spettacolo inaugurale del teatro greco di Tindari, Aiace di Sofocle, diretto da Michele Stylo (1956). Racconta Isgrò: «Io ero sempre lì, trascinavo i miei compagni di scuola a fare da coro, seguivo tutte le prove. Ma prima del debutto ho visto in bozza il manifesto: il mio nome non c’era!». Emilio Isgrò, il cancellatore «cancellato».
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