Visioni

Isabelle Huppert, ogni scelta è sempre una nuova scommessa

Isabelle Huppert, ogni scelta è sempre una nuova scommessaIsabelle Huppert in «Lo zoo di vetro», regia di Ivo van Hove

Intervista Conversazione con l’attrice, a Romaeuropa oggi e domani in «Lo zoo di vetro», regia di Ivo van Hove. La sindacalista di «La verità secondo Maureen K.», Castellucci, Mazuy

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 settembre 2023

Isabelle Huppert ha un’ eleganza discreta, raffinata nei dettagli mai esibiti, sorride quando risponde alle domande. Sul viso senza trucco (tranne il rossetto) la luce fredda di un’afosa giornata romana riverbera come se ne venisse attirata per incanto. A portare nella capitale l’attrice, una delle magnifiche dive del nostro tempo, è il festival Romaeuropa che presenta nel suo cartellone (stasera e domani) Lo zoo di vetro, l’intramontabile testo di Tennessee Williams riletto qui dal regista belga Ivo van Hove. Un’altra di quelle che Huppert chiama «le mie scommesse», che accompagnano l’intera sua carriera tra cinema e teatro portandola da autori quali Bob Wilson o Claude Chabrol a Werner Schroeter, Tonino de Bernardi, Hong Sang-soo Paul Scharder, fino a Sidonie au Japon, il film di Elise Girard presentato alle Giornate degli Autori nella Mostra di Venezia 80 (uscirà con Academy 2), un ritratto femminile sospeso tra lutto e riscoperta della vita. E a La verità secondo Maureen K. (La syndicaliste), in sala da giovedì scorso a cui Huppert tiene in modo particolare. La storia vera di Maureen Kearnay, rappresentante sindacale alla centrale nucleare di una multinazionale francese che denunciò accordi segreti difendendo migliaia di posti di lavoro contro politici e industriali. «Credo che sia normale per un’attrice avere curiosità e fiducia verso mondi molto diversi tra loro. Gli incontri avvengono molto spontaneamente, e sono stati sempre unici nella mia vita»dice Huppert che ora sta lavorando insieme a Romeo Castellucci in Berenice (da Racine) e al cinema con la regista francese Patricia Mazuy.

VAN HOVE sembra avere una particolare predilezione per i miti dell’America negli anni cinquanta – ha portato in scena Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller; West Side Story; Chi ha ucciso mio padre di Edouard Louis – così come per gli interni famigliari. Eccoci dunque nella soffocante casa degli Wingfield dominata dalla figura materna di Amanda – a cui dà appunto vita Huppert – che prova a plasmare secondo i suoi desideri la vita dei figli: Laura malata e instabile che lei vorrebbe sposata a ogni costo e Tom il più sfuggente, narratore di una storia che è già memoria in cui si avverte l’autobiografia dello stesso Williams. Intorno si respirano gli anni Trenta di un sud americano impregnato di razzismo e di nostalgie, come quel Mississippi dove Williams era nato (nel 1911) a cui si mescolano la solitudine e la follia di personaggi costretti a una vicinanza che li devasta. «La scenografia di Jan Versweyveld traduce la cesura fra i personaggi e l’esterno. È uno spazio chiuso, e dolce a suo modo che definisce il loro l’isolamento mentale, i sentimenti, le passioni che vivono e che li portano alla pazzia».

Come vi siete confrontati con quello che è un classico della letteratura teatrale?

Williams lo ha scritto quando era molto giovane ispirandosi al proprio vissuto segnato da una madre invadente e una sorella malata. L’osservazione della famiglia e del suo funzionamento è molto presente nella sua scrittura, e in una traduzione al presente rimane un riferimento. Il personaggio della madre con la sua follia che è anche toccante declina una forma molto eccessiva dell’amore materno in cui scompare qualsiasi distinzione tra reale e immaginato. Ognuna di queste figure insegue un sogno che non può realizzare, che è inavvicinabile, e questo è molto doloroso. Williams sceglie una cifra che non è reale, che passa attraverso il sentimento del mondo del figlio, della figlia, della madre. Tutto questo è pieno di spunti contemporanei e universali, che riguardano l’animo umano.

C’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente nel testo?

Mi hanno incuriosita i commenti molto duri su D.H.Lawrence che vengono detti da Amanda, la madre. È vero che servono a connotarla come una persona reazionaria e provinciale, però mi sono chiesta cosa ne pensava Williams di Lawrence. Lo stesso vale per le accuse che la madre fa al figlio di andare troppo al cinema pensando che le nasconda qualcosa – e noi sappiamo che ci sono cose che non dice. Ma tutto questo è ancora una volta un modo per sottolineare l’ipocrisia fra di loro, le menzogne in cui vive quella famiglia – che molto spesso sono comuni in tante altre, e vale per il fatto di non voler assumere da parte della madre l’omosessualità de figlio o la malattia della figlia. L’esplosione è inevitabile.

Nella sua carriera il teatro si unisce al cinema.

Non sento una particolare differenza se non che a teatro il pubblico è presente fisicamente. Quello che mi interessa, e che è comune ai registi con cui ho lavorato, è che considerino l’attore come una persona e non solo per il personaggio così da far sentire la vita. Il teatro poi ha delle convenzioni che possono intimidire ma non credo che sia più impegnativo che girare un film.
In questi giorni è in sala in Italia « La verità secondo Maureen K». Il personaggio era reale, questo ha cambiato il suo approccio?
Il fatto che sia una storia vera non basta da sé a giustificare il film. Il soggetto è molto forte, per me è interessante il modo in cui la figura reale diviene personaggio nella finzione, con degli aspetti anche misteriosi che abbiamo sottolineato con riferimenti cinematografici. La vera Maureen Kearney l’ho incontrata dopo le riprese ma credo sia stata molto contenta del film.

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