Era la fine degli anni ’70 quando una ragazza spigliata e sensuale, occhi e capelli corti neri, raccontava l’America per L’altra Domenica, programma cult di Maurizio Barendson e Renzo Arbore della allora Rete 2 della Rai. A poco più di vent’anni Isabella Rossellini (già) bucava lo schermo con una bellezza non addomesticabile e un piglio ironico, sagace, acceso.

Figlia d’arte di due giganti del cinema del Novecento, Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, da sempre in between tra Europa e Stati Uniti, volò a New York a 19 anni, dove iniziò quasi subito la carriera, mai interrotta, di modella. Ha posato, tra gli altri, per Helmut Newton, Annie Leibovitz, Robert Mapplethorpe.

Attrice e musa per ruoli indimenticabili e mai scontati – uno tra i primi, la perturbante cantante di night Dorothy in Blu Velvet di David Lynch (1986) – nel corso della sua straordinaria carriera è diventata l’icona di un modello di donna libera dai canoni imposti dal mercato, simbolo di eleganza, intelligenza, e di una bellezza naturale e ribelle che accoglie gioiosamente i segni del tempo.

Da autrice e regista, l’interesse per i punti di contatto tra esseri umani e mondo animale era già sfociato in Green Porno, una serie di web corti comico- scientifici sostenuti dal Sundance Channel di Robert Redford in cui racconta l’eros degli animali con scene e costumi da Arte Surrealista. Nel 2013 ha fondato con la figlia Elettra la Mama’s Farm, una fattoria biologica a Long Island dove si è ritirata a vita contadina che racconta sul suo canale Instagram da oltre 800000 followers.

Anche da questo è scaturito Darwin’s Smile, il suo one woman show che approda nei teatri italiani per una mini tournée (debutto il 15 al Teatro Remondini di Bassano del Grappa, poi Vicenza, Trieste, fino alla settimana 23-28 gennaio al Teatro della Pergola di Firenze, con una parentesi dedicata ai suoi corti che verranno proiettati il 17 gennaio al Cinema Modernissimo di Bologna). Un monologo sulle espressioni delle emozioni degli uomini e degli animali che combina le capacità di attrice e etologa di Isabella Rossellini.

L’abbiamo intervistata qualche giorno prima della sua partenza per l’Italia. Negli Stati Uniti era da poco mattina, la voce rauca e suadente, a tratti esuberante, di una diva.

C’è un filo rosso che collega «Green Porno» a questo lavoro teatrale, «Darwin’s Smile».

Ho amato gli animali fin da quando ero bambina. Quando avevo 14 anni mio padre mi regalò il libro di Konrad Lorenz L’anello di Re Salomone. È il fondatore dell’etologia e dello studio del comportamento animale di cui mi innamorai definitivamente. Quando si andava all’università c’era l’Anatomia, le classificazioni delle specie, la Zoologia, ma non si studiava il comportamento animale, una scienza relativamente moderna. Alla fine del liceo mi sono iscritta all’Accademia di Costume e Moda a Roma. Ho fatto la modella, l’attrice, però in me c’era sempre quest’interesse. Invecchiando c’era meno lavoro. Un giorno sono andata a sentire una conferenza di una scienziata sul comportamento animale, queste cose mi divertono. All’università davano dei volantini: avevano appena aperto la facoltà di Etologia. Mi sono iscritta quella sera stessa. Adesso sono anche etologa, ho un master, sette anni di studi.

Com’è nato «Darwin’s Smile»?

Mentre studiavo all’università, ho realizzato e una serie di corti che hanno avuto molto successo in America. Sono stata contattata dal Museo D’Orsay di Parigi, facevano una mostra su Darwin e l’evoluzione. Mi hanno chiesto di tenere due conferenze un po’ comiche su Darwin, di circa 45 minuti ciascuna; si chiamavano rispettivamente L’emicrania di Darwin e Il sorriso di Darwin. Venne a vederle Muriel Mayette, direttrice del Teatro nazionale di Nizza. Le piacquero molto, mi propose di farne uno spettacolo. Abbiamo debuttato circa un anno e mezzo fa a Nizza, la regia è sua. È la prima volta che le faccio in Italia, le ho fatte in America, in Germania. Recito in tre lingue ma non riesco a saltare da una lingua all’altra! Adesso faccio un periodo solo Italia poi lo riprendo in inglese e in francese.

Isabella Rossellini in “La Chimera” foto di Simona Pampallona

Che rapporto ha col teatro?

In passato ho lavorato con Robert Wilson, Terry McNally però non ho fatto moltissimo teatro. All’epoca non volevo, il lavoro di modella sarebbe stato compromesso e si guadagna molto di più come modella che col teatro. Il teatro richiede un impegno di tempo molto lungo, quando avevo i bambini piccoli non me la sentivo di partire per le tournée. Con un film già è difficile ma si sta via sei, otto settimane poi torni a casa e ti fermi dei mesi prima del prossimo progetto; invece il teatro è «on the road» come si dice in America. In scena ho lavorato sui miei monologhi. Ne ho scritti tre, questo è il terzo.

Lei è modella, attrice, giornalista, autrice, regista. In quale di questi ruoli si identifica?

Si somigliano tutte, tra modella e attrice ci sono tante cose in comune, così come tra l’essere attrice e raccontare la storia di una persona. Ci sono attori che scrivono, attrici che diventano registe. Ciò che accomuna queste figure è la narrazione. Anche una fotografia sembra statica ma quando uno la guarda, stimola la fantasia a immaginare una storia.

Come le pare il cinema italiano visto dagli States?

Purtroppo la cultura americana è un po’ chiusa rispetto ai lavori stranieri, mentre noi in Europa, forse perché ci sono tanti paesi, siamo più aperti. Il cinema italiano si vede poco. Ultimamente ho cercato di sostenere come ho potuto Io capitano di Matteo Garrone che spero possa arrivare alla notte degli Oscar. Il film è molto bello. Abbiamo fatto delle proiezioni e le persone in sala si sono commosse.

L’abbiamo vista di recente nella parte della favolosa e eccentrica Flora, nobile decaduta in «La Chimera». Com’è stato lavorare con Alice Rohrwacher? Cosa pensa di questo nuovo sguardo che torna ad osare nel cinema italiano?

In un giornale americano qualcuno, cercando di descrivere il lavoro di Alice, ha scritto «magical new realism». Il «magical realism» è quello di Garcia Marquez, invece lei ha il «magico neo realismo» come quello di mio padre. Questo mi ha molto commosso. So bene che gli autori non vogliono essere etichettati, vogliono essere liberi, non è che lavorano su uno stile, lavorano su quello che hanno nel cuore e come lo vogliono dire. Però si sente in Alice una cultura del cinema italiano, che si rifà a tanti: non solo a mio padre, ma a Fellini, Pasolini, e a questo lei aggiunge la sua magia. Trovo che ha un enorme talento. Mi commuove questo collegamento che ha con il cinema di mio padre che è evidente – è evidente anche nel film di Garrone ma con Alice Rohrwacher ho lavorato e l’ho visto da vicino. E poi è simpaticissima. Anche lei vive in campagna: parliamo sempre di miele, api, animali. (Ride di gusto).

Di razze animali antiche, desuete, quasi scomparse.

Di razze antiche. Lei ha una specie di grande nostalgia, l’agricoltura contemporanea industrializzata ha creato le mono culture, si è persa la cultura contadina che era ricchissima, ma anche le razze degli animali, i tipi di vegetali che mangiamo. Anch’io nella mia fattoria faccio questo, ho solo razze antiche e storiche, per cercare di mantenere la biodiversità. Se abbiamo un solo tipo di pecora, un solo tipo di pollo, perdiamo tanto. Così come per i cani, se abbiamo solo il bassotto e nessun’altro si perdono non solo la maniera di essere, ma anche i talenti. Ognuno ha un talento che va continuato. È importante per la biodiversità.

Parlando di biodiversità, lei è l’icona di una bellezza che da sempre ribalta e decostruisce i canoni e i modelli precostituiti, nella moda e nello star system.

Lavoro per Lancôme da tantissimi anni. Lancôme è un servizio, danno alle donne ciò che desiderano. Una delle cose più affascinanti è stato vedere come questi desideri siano cambiati. Trent’anni fa, quando avevo quarant’anni anni, mi avevano mandata via. Dicevano che le donne sognano di essere giovani, quindi una donna dopo i quaranta non può più rappresentare quel sogno – «non rappresentiamo la realtà» di hanno detto. Penso che in parte abbiano sbagliato i dirigenti dell’epoca, hanno seguito uno stereotipo, un’abitudine una tradizione. Invece quando c’è stata la nuova generazione di dirigenti – sono tutte donne, allora non era così – la prima cosa che hanno fatto è stata richiamarmi, dicendomi:«non definiamo la bellezza come un sogno di gioventù, ma come creatività, espressione di se stessi, del proprio stile». Difatti, quando vedi la pubblicità, oltre a me c’è Julia Roberts che in altri tempi, avendo superato i cinquanta, non sarebbe rimasta modella, anche se è famosissima; ci sono donne di ogni etnia e colore della pelle, anche persone che non sono modelle, una rapper, delle poetesse. C’è una definizione di bellezza che è molto più ampia, molto più inclusiva e piena di energia positiva. Questa cosa che bisognava essere magre, giovani, bionde e con gli occhi azzurri era un po’ restrittiva e soprattutto ci faceva venire a tutte un cattivo umore!

Le sembra che questa percezione sia cambiata anche in Italia?

A me sembra di sì, anche se, certo, le cose cambiano un po’alla volta, e «bionda magra giovane occhi azzurri» è comunque un cavallo vincente. Però, se si guardano le pubblicità, anche nei giornali di moda, cominciano a essere molto diverse da quelle degli anni ’70 – ’80.

La rivedremo presto al cinema, magari nostrano?

Ci sono due o tre film che ho fatto che dovrebbero uscire in lingua inglese, Conclave di Edward Berger, che ha vinto l’Oscar come miglior film internazionale con Niente di nuovo sul fronte occidentale; Spaceman di Johan Renck con Adam Sandler e Carey Mulligan dove ho un ruolo più piccolo; e un film di un comico americano di origine messicana, Julio Torres, con Tilda Swinton, in cui faccio la voce narrante. Negli States abbiamo avuto un lungo sciopero, ora stiamo riprendendo a lavorare. Mi sono arrivate nuove proposte. In Italia chissà…magari!

SCHEDA /La vita, Un’amante della bellezza a tutto campo

Nata a Roma il 18 giugno 1952 dal matrimonio di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, esordisce nel cinema nel ’79 nel film «Il prato» dei fratelli Taviani. Contemporaneamente porta avanti la carriera di modella e di testimonial nel campo dei cosmetici, in particolare con Lancôme.

Il suo primo ruolo in una produzione cinematografica statunitense lo ottiene ne «Il sole a mezzanotte» di Taylor Hackford (1985) ma rimarrà iconico il personaggio di Dorothy Vallens, cantante di un night club da lei interpretata in «Velluto blu» di i David Lynch (1986). Il palcoscenico lo calca per la prima volta nel 2004, con «La sindrome di Stendhal» di Terrence McNally.