Isaac Bashevis Singer, un ebraico gangster novel
Chaïm Soutine, «Uomo che prega», 1921
Alias Domenica

Isaac Bashevis Singer, un ebraico gangster novel

Inediti d'autore Fra Varsavia e Buenos Aires, Isaac Bashevis Singer fa muovere i suoi campioni di malessere fisico e metafisico, impegnandoli in amori clandestini e malavita: «Max e Flora», da Adelphi, mai tradotto prima
Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 giugno 2023

La via Krochmalna nel quartiere ebraico di Varsavia è sovraffollata e caotica, gremita di santi uomini e ladruncoli, ortodossi e accattoni, pie donne e prostitute, rivenduglioli e ruffiani, pullulante di traffici sopra e sottobanco; case di studio chassidiche dividono lo spazio con taverne e bazar, preghiere e imprecazioni salgono insieme verso il cielo, e la più eterea santità convive senza stridore con i pantani più sordidi. Non solo luogo dell’infanzia e della prima giovinezza, la Krochmalne gas è per Singer – che lì vivrà dal 1908 al 1917, tra assunzioni di responsabilità intorno alla corte rabbinica del padre e scorribande adolescenziali – insieme epitome e antonomasia, campionario in sedicesimo, e ad altissima densità, di vita ebraica in tutte le sue diramazioni. Un gomitolo di onestà e malaffare, mondo insieme sapiente e miserabile, micrologico e grandioso, dove convergono – affluenti mai secchi, ingrossati da sempre nuove storie – misticismi e dubbi, rassegnazioni e rivolte, trasporti di spirito e impulsi corporei.

Una volta oltreoceano – anche dopo che la Polonia ebraica sarà rasa prima dai nazisti, poi dai sovietici, e la formicolante corte di miracoli e miserie racchiusa in quella strada lascerà lo spazio a uno skyline di inerti palazzoni – Singer continua, forse persino in misura maggiore, a fare di questa brulicante serpentina l’axis mundi. Spinto probabilmente da moti nostalgici e rievocativi, da un’idea vaga di restitutio in integrum, dal ripristino, tanto tenace quanto impossibile, di un Eden da tempo in frantumi ma più di ogni altra cosa attratto dall’altissimo potenziale poetico e umano racchiuso in questo giro di vicoli, Singer vi ambienta molte storie in yiddish, pubblicate prima a puntate su giornali ebraico-americani, in seguito (ma non sempre) tradotte in inglese e chiuse nella compiutezza della forma romanzo, con una diversa combinazione delle tessere narrative e lo sguardo a una destinazione più ampia.

Contro il medesimo fondale – la via Krochmalna omphalos del vecchio mondo, ma anche oltreoceano, in Argentina, sulla rotta della tratta delle bianche prima della Grande Guerra – si proiettano tre storie, Shoym (‘Schiuma’ e anche, con voluta ambiguità, ‘teppa’, 1967), Di Gest (Gli ospiti, 1972), Yarme un Keyle (Yarme e Keyle, 1976-77), pubblicate, nel giro di dieci anni, a puntate bisettimanali sul «Forverts», il famoso quotidiano yiddish di New York.

Mentre il primo romanzo è presto tradotto in inglese e, chiuso in volume, si instrada facilmente sul mercato editoriale in molteplici versioni, il secondo e il terzo, per i successivi quaranta o cinquant’anni, non vanno oltre la pubblicazione seriale in yiddish, mentre la loro versione inglese, sempre sorvegliata dallo stesso Singer quando non di sua mano e fitta di annotazioni d’autore, rimane inedita, conservata in Texas. Come era già successo con Keyla la Rossa, anche Di Gest è ora pubblicato per la prima volta in traduzione italiana da Adelphi con il titolo Max e Flora (pp. 223, € 19,00) a cura di Elisabetta Zevi che, con provata abilità, lavora sulle carte dell’Archivio Singer integrando la bozza inedita, in lingua inglese, con l’originale yiddish, per rimarginare discostamenti testuali e restaurare, dove possibile, la prima versione.

Le tre vicende sono, in prima approssimazione, gangster novel ebraiche, storie d’amore e malavita che spezzano i vincoli, solidi e legnosi, di un genere letterario ampiamente battuto dalla letteratura yiddish europea fin da metà Ottocento, combinando la descrizione di un underworld urbano con accenti sapienziali e sguardi nostalgici verso un candore ignaro del mondo, ma ormai corrotto dall’esperienza. A unire le storie con voluta filigrana sono tre personaggi che hanno lo stesso nome: Max. Villain in diverse gradazioni, si ritrova a essere di volta in volta attore principale, deuteragonista o catalizzatore di svolte narrative e sfaldamenti esistenziali.

In Max e Flora, Max Shpindler è un affarista partito da Varsavia per far fortuna nelle Americhe, arricchito con una fabbrica di borsette che maschera i traffici illeciti di un florido lenocinio, in un trafficatissimo bordello di Buenos Aires con tenutaria ebrea. Insieme alla moglie Flora, già attricetta da teatro di rivista con trascorsi poco rispettabili ma ormai, almeno all’apparenza, donna di mondo e di garbo, affezionata al marito e complice delle sue fortune, Max torna a Varsavia dopo tanti anni per procurarsi ragazze da impiegare in fabbrica o nei suoi peccaminosi dintorni, e calca di nuovo i luoghi della sua giovinezza, in una girandola di incontri con il passato, diviso tra la piccola e grande criminalità dei bassifondi e i ricordi sbrindellati di un’educazione religiosa che ha lasciato, se non altro, il tepore di un’appannata, ma a tratti ancora baluginante, appartenenza.

Impenitente donnaiolo e trafficante sempre alla ricerca di guadagno, tanto meglio se losco, Max fa affari con la Varsavia del sottosuolo, finanzia un gruppo di anarchici che vogliono far saltare una banca, finisce a letto, inconcludente, con una sovversiva virago che vagheggia un futuro di pace mentre si esercita con la rivoltella, si accende d’amore per la quindicenne Rashka, angelicata creatura che passa il tempo a sognare fughe d’amore e avventure mozzafiato e che, una volta conosciuto Max, dismette facilmente i panni della vestale. Elettrizzato sulle prime dagli entusiasmi fedifraghi di questo amore nuovo e fino all’ossessione timoroso dei rovesci della fortuna, Max sembra voler voltare pagina, per una volta ravvedersi e ripartire daccapo ma, alla lunga, il fantasma di Flora torna a farsi sentire, magnetico e irresistibile come sempre, spingendo la storia verso il coup de théâtre finale.

Scandito in due parti e un epilogo, diversamente da Keyla la Rossa il cui impasto ha maggiore coesione e una più netta tenuta romanzesca, Max e Flora mostra una struttura «a stazioni», mai dimentica della sua originaria serialità, dove gli ingredienti tipici di un certo Singer – il sesso, la smodatezza un po’ cochon, gli amori clandestini, proprio quegli ingredienti che gli hanno attirato gli strali di una critica occhiuta e scolastica, sbrigativa nell’etichettare queste storie come shund (trash) – trovano tutti casa, giustificati dall’attesa della puntata successiva che dà luogo a uno spumeggiante sensazionalismo con climax sul finale,  talvolta a discapito della verosimiglianza e della solidità d’impianto.

Nonostante le linee di sutura tra episodio e episodio siano visibili e chiaramente percorribili, della grande narrativa di Singer Max e Flora conserva lo sguardo sbigottito e stralunato dei personaggi. Le loro traiettorie nel malcostume, apparentemente rettilinee e pervicaci, si interrompono all’affiorare di dubbi radicali che li rendono campioni di malessere fisico e metafisico, elastici tesi tra le bassure di ogni giorno e la sincera, accorata speranza di un senso nascosto oltre gli accidenti della vita.

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