Sarebbe stata scelta facile e assai più comoda dipingere Irmela Mensah Schramm come una sorta di eroina. Bastava seguirla nel suo inusuale lavoro quotidiano, aprire con lei qualcuno tra le decine di dossier allineati sulle librerie del salotto di casa, lasciare che rabbia e indignazione sfociassero nella sua fluviale loquacità. Non ha fatto questa scelta il quarantenne torinese Vincenzo Caruso, autore e regista del documentario The Hate Destroyer (La distruttrice dell’odio) presentato di recente a Milano, Roma, Torino Bologna. Caruso ha invece preferito condurre la storia sul duplice binario del personaggio e della persona. Aggiungendo valore e significato a un tema di forte attualità, e tenendolo lontano dalla narrazione per aneddoti, dagli ammiccamenti, da ruffiani appelli alla commozione. Chi sia Irmela Mensah Schramm, Vincenzo lo scopre per caso sette anni fa, quando gli capita sotto gli occhi un trafiletto con fotografia comparso nelle pagine di un quotidiano free press. Lì si da notizia di un’anziana signora berlinese che da più di vent’anni gira per le strade di questa e di altre città della Germania, armata di spatola e bombolette spray. La sua missione consiste nel cancellare scritte, graffiti, adesivi, manifesti, lasciati sui muri dai militanti delle organizzazioni neonaziste. Tre giorni dopo, il regista è a Berlino. Ha trovato il numero di Irmela sull’elenco telefonico, l’ha chiamata, lei si è dimostrata molto disponibile all’idea di mettersi davanti a una videocamera. Il gioco è fatto? Tutt’altro.

La donna con cui Caruso si ritrova a parlare, settantadue primavere, è diversa da quella che si attendeva. Tanto appare esuberante, vitale, aperta quando l’argomento riguarda la sua battaglia, tanto si chiude a riccio se le domande entrano nella sfera di motivazioni di carattere personale. Dietro le risate, il piglio deciso, lo spirito militante, Caruso intuisce la presenza di un’altra Irmela. E decide di provare a raccontarla in parallelo, accanto all’Irmela per così dire ‘ufficiale’. «Conquistare la sua fiducia è stata un’impresa estremamente complessa. A un certo punto ho capito che per farla uscire da certi lunghi silenzi, l’unico modo era svelare me stesso, le difficoltà e i problemi del mio passato. Aprirmi a lei per farla aprire. Ha funzionato, e nel nostro rapporto confidenza e amicizia hanno cominciato a crescere». I cinquantadue minuti di The Hate Destroyer sembrano riflettere questa progressione di intimità che, come si diceva, costituisce il valore aggiunto dell’opera Il documentario si apre con la Distruttrice in azione.

Cammina tra le vie di quartieri periferici, attraversa ponti, si infila nei sottopassi della metropolitana scrutandone minuziosamente i muri. Sotto i colpi della spatola (‘è in ceramica’, afferma orgogliosa) e l’inchiostro della bomboletta spray, la propaganda delirante dei neonazi scompare. Nulla si deve più leggere, neanche il più piccolo brandello di carta deve restare incollato. Poi entriamo nella casa popolata da una coppia di gatti. Il fulcro è il salotto, dove Irmela entra e appende la borsa con la scritta Gegen Nazi (contro i Nazi), eterna compagna del suo vagabondare urbano. Le pareti sono in buona parte occupate da scaffalature zeppe di dossier (‘quarantasei’, precisa) catalogati per anno, da pannelli zeppi di fotografie e appunti. I dossier costituiscono un archivio in divenire che ha iniziato a prendere forma qualche tempo dopo l’avvio di quella che Schramm non esita a definire una missione. E tale appare, alla luce delle cifre che la signora snocciola con orgoglio: oltre venticinque anni di attività, ottantacinquemila cancellazioni, quasi sessantamila adesivi abrasi, poco meno di tredicimila foto scattate. Missione lodevole, non c’è che dire, e meritevole di ulteriore plauso guardando le immagini dei cortei e dei raduni neonazisti nei quartieri di Berlino: bandiere nere, teste rasate, facce che lasciano trasparire la voglia di violenza, comizi che esaltano la supremazia tedesca, scene di pestaggi. Secondo i dati ufficiali, gli iscritti ai vari movimenti dell’ultradestra non superano i ventimila.

Ma simpatie e nostalgie per il Terzo Reich sarebbero vive nel venti/ trenta per cento dei tedeschi. Tuttavia, l’iniziale e incondizionata solidarietà nei confronti di Irmela, l’ammirazione che suscita pensando a quanto sia utopica la sua lotta, cominciano a lasciare qualche spazio al dubbio di un certo narcisismo, al sospetto di un certo compiacimento nel mostrare lettere di insulti e di minacce, alla sensazione che le sicurezze granitiche della Distruttrice nascano da qualche fantasma del passato. È a quel punto che Caruso aziona lo snodo del film, segnando il passaggio dal personaggio alla persona. È un’amica, attivista per la pace, a mettere a nudo, seppure con amore e indulgenza, la Shramm per forza di carattere solitaria nella vita e sul campo; a chiedersi “Se non ci fossero i Nazi, cosa sarebbe Irmela?”, pur ribadendo la nobiltà della causa che ha sposato. Ma ben più importante è il momento in cui la protagonista abbandona, seppur non del tutto, il solido edificio del suo ruolo ufficiale. Scopriamo allora una donna che ha lottato contro il cancro, e se ne è uscita, dice lei, lo deve ai suoi nemici, buon motivo per non arrendersi.

Scopriamo, prima da una foto e poi da frammenti di frasi sussurrate a testa china, dell’amore negatole dalla madre; di un padre alcolista, ‘Però mi voleva bene’; di un’infanzia trascorsa in un istituto per bambini con problemi fisici e mentali, della mancanza di legami con le sorelle. Ed ecco, allora, che la rivelazione di ‘questa’ Irmela accresce la figura della combattente coerente e radicale, così lei si definisce; ne fa apprezzare ancor di più la fatica quotidiana, l’incrollabile fiducia nella possibilità che le sue armi senza pallottole riescano ad arginare l’onda alta del fanatismo. Se di Irmela avessimo ignorato le fragilità, forse non saremmo arrivati a cogliere lo sdegno che il suo volto esprime durante l’incontro con un neonazista pentito. La Distruttrice di odio non riesce, non può, regalare indulgenza a chi, per esemplificare i crimini dei suoi ex camerati descrive le violenze cui è stato capace di sottoporre una madre indiana e la sua bambina, esaltandosi ad ogni calcio, a ciascun pugno. Vincenzo Caruso ha saputo cogliere e portare sullo schermo, con delicatezza estrema, una vicenda che ha nel dolore il suo elemento fondante. Il dolore mai davvero metabolizzato di Irmela bambina e adulta. Il dolore mai sopito di una nazione, ignorato e disprezzato da bande di criminali. Il dolore della nuova Irmela che quelle bande combatte, consapevole della propria impotenza. Il dolore, come l’odio, è difficile da sconfiggere. Ma può trasformarsi, senza sparire, in un sentimento diverso. Come è successo a Irmela Mensah Schramm, The Hate Destroyer.

BOX

The Hate Destroyer, distribuito da EIE film e promosso da UCCA (Unione Circoli Cinematografici Arci) nell’ambito della rassegna L’Italia che non si vede, è in tour. Prossima data il sette marzo, alle 21, cinema Visionario di Udine. Sempre a marzo, tappa oltreconfine in Repubblica Ceca, con l’anteprima internazionale all’IFF One World. Tra aprile e maggio, appuntamenti a Faenza, La Spezia, Padova, Pordenone e Treviso. In cartellone anche un ritorno a Milano e Roma. Calendario sulla pagina Facebook https://m.facebook.com/eiefilm/?ref =bookmarks. Le scuole eventualmente interessate alla proiezione del documentario possono scrivere a zelia.ezbogar@eiefilm.com.