La protagonista di Mia sorella è pazza, il graphic novel di esordio di Iris Biasio, uscito in estate per Rizzoli Lizard, si chiama Rita e vive in uno stato di inspiegabile catatonia post traumatica. Sua sorella Francesca la va a visitare spesso nella clinica immersa nel verde dove Rita siede impassibile e sorridente; un giorno Francesca si taglia mentre sbuccia una mela e alla vista del sangue, per Rita tutto cambia. Abbiamo intervistato l’autrice al Treviso Comic Book Festival poche ore prima che ricevesse il Premio Boscarato come miglior rivelazione (assegnato ex aequo a Percy Bertolini per Da sola).

Finalmente un esordio che è un romanzo. Da dove attinge questo racconto? Come nasce una così dolorosa e difficile?
Stavo lavorando ad altre storie e in una appariva già il personaggio di Rita, però principalmente avevo un’immagine chiara in mente, come una specie di tarlo: un bosco dove doveva succedere qualcosa. Poi ho riletto il racconto Nel bosco di Akutagawa Ryunosuke, che ha ispirato il film Rushomon di Kurosawa, dove tutti i personaggi raccontano la propria versione dell’assassinio e si riflette sull’impossibilità di trovare un’unica verità. Così mi sono convinta dell’importanza e adeguatezza dell’elemento del bosco come luogo dove qualcosa si rompe, uno spazio che diventa un simulacro del segreto. I personaggi sono nati dai racconti del corso di scrittura creativa; la stessa Rita, che all’inizio non era disegnata, era un personaggio secondario ma presentava già il profilo che ha acquisito nel romanzo e le stesse caratteristiche: una donna con un problema mentale legato a una gravidanza.

Anche la clinica è immersa nel bosco: la vegetazione appare dalle finestre, come se toccasse direttamente questo ambiente diafano e ospedaliero dove le relazioni sono un po’ ruvide, complicate. Nel bosco Rita ha subito il suo trauma e ora in un altro bosco siede catatonica durante le visite della sorella.

Ammetto che quello silvestre è un ambiente che adoro disegnare proprio per puro piacere nel gesto. L’aspetto affascinante del bosco è che può separare, appartare, ma non dà la protezione di un muro. Non è un ambiente inerte, ma un teatro vivo, da dove si possono osservare i personaggi.

L’acqua alta di Venezia e il sangue mestruale che influisce sulla patologia di Rita appaiono in momenti chiave del racconto. Aldilà delle simbologie dei fluidi, Rita, è puro istinto e selvaticità anche se è sposata con Edo, un personaggio fuori dal tempo, che usa arte e musica come elevazione spirituale. Puoi parlarci dei tratti salienti della protagonista?
Il carattere istintivo di Rita mi interessava molto. Mi sembra che abbiamo perso il contatto con la nostra istintività, con gli elementi naturali, con il gesto; che ci siamo dimenticati degli odori, della natura, che non sappiamo riconoscere sensazioni note. In Rita questa capacità è estremizzata, poiché la sua psiche è rimasta per certi versi ferma a quella fase in cui si usano tutti i sensi perché stiamo esplorando il mondo. Una fase dell’infanzia nella quale siamo più dentro alle cose. A volte capita che in quel momento qualcosa vada storto, non funzioni come ci si aspetta e la persona cresce in modo diverso da quelle che sono le comuni aspettative sociali. Dovremmo capire che questo tipo di diversità ci riguarda più di quanto crediamo, così come il dolore che questa dimensione genera. Le difficoltà di relazione con il diverso o il malato psichico spesso derivano da questa dimenticanza, un grande rimosso collettivo che ci rende incapaci di rapportarsi, e che spesso ci fa commettere microviolenze verso gli altri. Le cose vanno meglio solo quando si impara ad ascoltare l’altro, cosa che comporta la sospensione del giudizio, il fatto di mettere da parte il proprio sé, per aprirsi all’altro.

Francesca dapprima non ci riesce: va in clinica a trovare Rita, ma ha una relazione con il suo medico, il dott. Pieruzzi, che la distoglie dalla dedizione dell’ascolto e la allontana dal problema della sorella.
Pieruzzi è il simbolo di questa grave dimenticanza, l’esempio di uno studioso che ha perso completamente il contatto umano con i pazienti, perché si è dimenticato della natura. Sappiamo invece che abbiamo corpi diversissimi e rispondiamo alle patologie in modo completamente diverso. Soprattutto a quelle mentali, per le quali le categorie di tempo e spazio cambiano in continuazione.

La storia di Rita, dal trauma conseguente alla morte accidentale di suo marito Edo alla sua risposta fisica, tocca anche il tema dell’estrema medicalizzazione, rappresentata dal punteruolo per la lobotomia.
Il grande clinico è quello che sa ascoltare, che sta sul campo a vedere persone e casi diversi: si può essere grandi professori, ma non necessariamente grandi clinici. Peruzzi si è dimenticato dell’ascolto della persona e del paziente. Pensa di risolvere tutto solo con la medicina, ma è in difficoltà con Rita perché non l’ha ascoltata e non può capirla. Ha l’intuizione di quello che sta accadendo ma è per caso, per il cambio repentino in Rita, che riesce a risolvere il caso e questo diventa un’ottima occasione per far carriera.

In effetti è grazie a Francesca con la sua piccola ferita sanguinante prima e il suo ascolto poi, che la patologia di Rita ha una svolta brusca.

Sì, prima è una patologia di chiusura dovuta al dolore di vivere, che tutti condividiamo, ma al quale reagiamo diversamente: Rita inventa una gravidanza, una risposta creativa a una sofferenza, un atto generativo immaginato, con il quale il suo corpo colma una mancanza.

Hai dato concretezza a questa mancanza e alla patologia disegnando questo bambino immaginato.
Mi sono chiesta a lungo se mostrarlo e poi ho pensato che se per Rita esisteva, il bambino doveva apparire in pagina, diventare visibile.

Francesca si mette in ascolto e inizia a ricordare, le immagini trovano il loro spazio tra le vignette piccole, isolate, sparse sulla pagina come frammenti del passato. Perché hai scelto di concentrare questa parte in fondo al libro?
È un gioco nato per caso, ma avevo queste pagine, e i flash, il pensiero analogico, le ricorrenze dei ricordi fanno parte del tentativo di ricostruzione della storia psichica della sorella che Francesca compie, chiedendosi dove sia il bandolo della matassa. Mi sembrava un modo perfetto per rappresentare la simultaneità e frammentazione del ricordo.

A dispetto di ambienti molto particolareggiati, in alcune vignette non ci sono sfondi. Quando e perché hai lavorato per sottrazione?
In tante di quelle tavole gli ambienti li avevo prima disegnati, ma dopo, riguardandole mi sono sembrati di troppo. Avevo bisogno del vuoto sordo, di spazi dove le parole dei personaggi cadessero del vuoto. Alcune sono pure scelte estetiche, in altri casi, considerando le parti in cui ho eliminato gli ambienti, ho effettivamente riconosciuto l’intento di sottolineare quello che è importante: togliendo rumore rimane la sostanza, come i mangaka insegnano.

Lo stile del fumetto giapponese si rintraccia bene nella fisicità e nelle espressioni facciali esasperate della sequenza dove Francesca e Rita bambine si azzuffano.
Sì, come moltissime altre persone ho iniziato a fare fumetti dopo aver scoperto il manga, grazie ai volumetti non resi dell’edicola dei miei genitori.

Completa il tuo stile un’elegante e pulitissima linea chiara e uno spiccato gusto classico per volumi e forme.

Un retaggio dell’Accademia delle Belle Arti di Venezia. All’inizio il fumetto doveva essere realizzato a pastelli a olio, ma presto mi sono accorta che sarebbe stato molto pesante, paradossalmente il peso della tecnica avrebbe depotenziato la storia. Talvolta la pesantezza del racconto intacca la verosimiglianza, il lettore non crede più a quello che sta leggendo. E forse proprio la ricerca della giusta combinazione tra tecnica e storia è stata la parte più difficile del lavoro: avevo bisogno di velocità ho abbandonato il pennino per la tavoletta grafica per disegnare velocemente perché la storia era piena di spunti e di elementi e aveva un ritmo incalzante.