Irene Brin, tra complicità e distacco
Il libro «Piccoli sogni di vestiti e d'amore», Archinto
Il libro «Piccoli sogni di vestiti e d'amore», Archinto
Sempre à la page, negli anni della mitica Galleria L’Obelisco di via Sistina diretta dal ’46 ai sessanta con il marito Gaspero del Corso, si dedica soprattutto all’arte e alla moda, senza trascurare con lo pseudonimo di Contessa Clara Radjanny von Skewitch – Alberto Sordi con il Conte Claro ne fece la parodia radiofonica e Franca Valeri la riprese in «Piccola posta» con la sua Baronessa Eva Bolavsky – la corrispondenza con i lettori della «Settimana Incom Illustrata». Anche Irene Brin è uno pseudonimo, quello felicissimo e fortunato, che Leo Longanesi aveva inventato per Maria Vittoria Rossi all’epoca di «Omnibus». Sospesa tra il gusto sofisticato di «Harper’s Bazaar» e il manuale di buone maniere del cosmopolitismo mondano, la sua scrittura si è esercitata a lungo su usi e costumi del salotto italiano tra le due guerre, diventando non solo l’inimitabile storiografa del tempo perduto nazionale ma anche, Arbasino dixit, la piccola maestra del nostro miglior giornalismo femminile. Il grande gruppo di articoli apparsi sui settimanali «Ecco Settebello», «Cine Illustrato», «Film» tra fine anni trenta e inizio quaranta, raccolti qui per la prima volta, ripropone lo sguardo disincantato di un critico-spettatore che i film ama vederli in sala con il pubblico.
Sullo sfondo dell’America amarissima di «Ventesimo secolo» di Howard Hawks, delle sgraziate «Ragazze in pericolo» di George W. Pabst, delle sauces printemps di «Primo bacio» del vecchio cuoco Harry Koster, degli stanchi avanguardismi di «La cittadella del silenzio» di Marcel L’Herbier, del fatale «Redenzione» di Léonide Moguy, dello struggente «La voce della tempesta» di William Wyler, viene in primo piano la produzione italiana del periodo. Da «La corona di ferro» di Alessandro Blasetti («Conferma il senso, nella nostra cinematografia inconsueto, di una libera immaginazione, di un abbandono aereo e maestoso. Sì, le fiabe si sono date convegno, alternandosi con le solenni saghe, e se troviamo i Nibelunghi, non mancano i Grimm o Perault») a «I promessi sposi» di Mario Camerini («L’intelligenza del regista ha reso ammirevolmente un romanzo così popolare ed amato che il maggior pericolo veniva appunto dalla sua stessa gloria, dall’avidità familiare per cui gli spettatori di scena in scena attendono prove di fedeltà altrui ad immagini proprie»), da «Teresa Venerdì» di Vittorio De Sica («Qui ritroviamo una grazia trepida e perfettamente sincera, di giovinezza. Ancora uno sforzo, e il regista poteva raggiungere l’atmosfera di poesia misteriosa, aspra e dolente, che davvero è l’aureola delle giovanissime») a «Alfa Tau» di Francesco De Robertis («Si tratta di un film senza trucco. Solo un’intelligenza amichevole e durissima può aver sorretto il comandante nell’imporre a ciascuno di ripetersi, di continuare, senza note forzate, senza sospetto, neppure lontano di esibizionismo»), da «Piccolo mondo antico» di Mario Soldati («Dunque un vero regista, se il film sostiene benissimo, oltre a tutte le altre, anche la Prova-delle-lacrime») a «La bella addormentata» di Luigi Chiarini («Qui nella composizione ardente ed amara dei palazzotti, delle casupole, dell’osteria, dei fichi d’India, dei balconi chiusi, degli arcangeli marmorei, qualcosa è stato raggiunto, e forse per la prima volta, nel nostro cinema le pietre hanno saputo parlare»), da «È caduta una donna» di Alfredo Guarini («Ci si sente una città, non è piccola lode quando si pensa che la città è Milano, tanto complessa, ricca e cordialmente difficile a raggiungere») a «Luci nelle tenebre» di Mario Mattoli («Ci si ritrovano tutti gli elementi capaci di commuovere la folla, e per commozione s’intende non solo l’appello alle lacrime, ma anche infiniti altri accorgimenti, e cominciamo dagli sfondi ai romani familiarissimi, e noti anche ai provinciali»).
Ma sono incontri con le dive Marlene Dietrich, Hedy Lamarr, Carole Lombard, Deanna Durbin, Zarah Leander, Danielle Darrieux, Alida Valli, Luisa Ferida, Isa Miranda, che meglio suggeriscono il suo atteggiamento tra complicità e distacco nei confronti del cinema. Se è abile nel cogliere le convenzioni delle storie che si svolgono sullo schermo, come i tic degli attori e delle attrici, si diverte di più a guardare in platea per fotografare con poche battute definitive gli umori del pubblico. Anzi, dei vari tipi di pubblico – l’altoborghese delle anteprime, il commercialborghese delle sale romane del centro, il superpopolare delle periferie – che distingue con acutissimo puntiglio antropologico (pp. 274, euro 24,00).
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