Iraq, il massacro di Baghdad coperto dallo Stato: 25 uccisi
Rivoluzione Uomini armati a bordo di pick up sparano sui manifestanti, senza essere fermati. Ma Tahrir non smobilita. Sanzioni Usa alle milizie sciite, ma Washington non fa mea culpa per aver imposto al paese una proto-democrazia settaria. Drone sulla casa di al-Sadr
Rivoluzione Uomini armati a bordo di pick up sparano sui manifestanti, senza essere fermati. Ma Tahrir non smobilita. Sanzioni Usa alle milizie sciite, ma Washington non fa mea culpa per aver imposto al paese una proto-democrazia settaria. Drone sulla casa di al-Sadr
È notte fonda a Baghdad quando iniziano gli spari. La capitale irachena, venerdì notte, non dorme: presidia piazza Tahrir e i ponti sul Tigri come fa ininterrottamente dal 25 ottobre scorso. All’improvviso il rumore dei motori di minivan e pick up sovrasta le voci dei manifestanti.
È l’inizio del massacro: uomini armati, ufficialmente non identificati, sparano sulla gente. Le persone fuggono in ogni direzione, ma in tanti cadono, raggiunti dai proiettili. Altri dalle coltellate, inferte in un edificio occupato da settimane, il garage al-Sinak, a nord di Tahrir.
Era successo anche il giorno precedente, nella piazza: 13 accoltellati, forse 15 (tra loro un giornalista, Ahmed al-Muhenne, morto subito dopo) da infiltrati che tentano di spezzare la fiducia interna all’autogestione.
Il bilancio finale del massacro è di 25 uccisi, oltre 130 feriti e la perdita del controllo del ponte e del garage al-Sinak e di piazza al-Khilani, teatri del bagno di sangue e dell’incendio poi appiccato dagli aggressori. Una perdita, quella, durata poco: ieri mattina in decine di migliaia sono tornati a marciare verso piazza Tahrir e, riporta Shafaq News, «hanno ripreso il controllo del ponte al-Sinak, del garage, di piazza al-Khilani, dei vicoli di al-Rashid Street».
Non cedono i manifestanti, neppure di fronte a una ferocia senza precedenti coperta dallo Stato. In tanti, ieri, su Twitter si chiedevano come fosse possibile che gang simili superino gli innumerevoli checkpoint militari, scorrazzino nel centro della capitale, aprano il fuoco sulla folla e scappino senza che nessun poliziotto o militare intervenga.
La risposta la danno alcuni manifestanti: lo Stato non vuole impedire la violenza. Vuole smobilitare la rivoluzione, ma le reazioni non sono quelle desiderate. Ieri gli scioperi sono proseguiti in tutto il centro-sud e il presidio di Tahrir si è riempito di nuovo, nonostante il bilancio delle vittime dal primo ottobre scorso cresca a velocità impressionante insieme alle candele, i fiori e le foto degli uccisi. Oltre 460 morti, 17mila feriti per mano dalla polizia o dei miliziani sciiti, proiettili e candelotti lacrimogeni sparati in testa.
Ieri il ministero dell’Interno ha annunciato un’inchiesta e, secondo Shafaq, la commissione parlamentare per la sicurezza ha convocato per oggi quattro generali, i comandanti di aviazione, polizia, 11esima unità dell’esercito e di quella per Baghdad.
Nelle stesse ore a Najaf la casa del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr, campione di arrampicata su qualsiasi forma di protesta popolare lo possa favorire, veniva colpita un drone. La sua cerchia non ha tardato a individuare il movente nel sostegno alla mobilitazione: poco prima unità sadriste erano state dispiegate a Baghdad a protezione dei manifestanti, fa sapere il suo portavoce.
Lui, al-Sadr, non era a casa ma in Iran, potenza da cui ha sempre detto di volersi distanziare (avvicinandosi invece alle monarchie sunnite) ma che da qualche tempo frequenta di nuovo, guarda caso mentre il parlamento cerca di individuare un primo ministro che sostituisca il dimissionario Abdul Mahdi, caduto in disgrazia.
Secondo fonti Usa, il potente generale iraniano Soleimani, capo delle Guardie rivoluzionarie e tacciato di essere il «premier» del governo ombra con cui Teheran gestisce il vicino Iraq, sarebbe a Baghdad in questi giorni per dare forma al nuovo esecutivo.
Venerdì contro le milizie sciite filo-iraniane – che dopo la lotta vinta all’Isis si sono fatte partito e sono entrate in parlamento – la Casa bianca ha emesso sanzioni economiche più dal sapore anti-iraniano che per un sincero interesse verso la repressione della protesta popolare: nella lista nera sono finiti i fratelli Qais e Laith al-Khazali, leader delle Asaib Ahl Al-Haq, e Hussein al-Lami, capo della sicurezza delle al-Hashd ash-Sha’bi.
Sono sanzioni facili, che non danno conto del ruolo di primo piano degli Stati uniti nell’imporre all’Iraq una proto-democrazia, un sistema di potere settario, diviso tra etnie e confessioni, in cui ogni élite distribuisce favori e privilegi ma non diritti.
Una buona notizia, però, c’è: i manifestanti, a milioni, e la loro rivoluzione laica ed egualitaria non solo non lasciano le strade ma non si fanno incantare dai canti di sirena. Né da quelli di al-Sadr, né di Teheran, né tanto meno da quelli statunitensi. Il loro obiettivo è un paese nuovo, in cui non ci sia spazio per posizioni di rendita, corruzione, ingerenze esterne e diseguaglianza.
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