In un’intervista all’Unità del 21 luglio, a Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, viene rivolta l’affermazione di Susanna Camusso secondo la quale «l’unica riforma vera è quella che serve per creare lavoro, ma il governo si occupa di tutt’altro».

La replica di Taddei inizia riconoscendo che «il lavoro si crea quando ci sono gli investimenti. Soprattutto privati». Forse Keynes meritava un’attenzione migliore…

Il fatto è che secondo Taddei gli investitori privati italiani ed esteri non investono perché «sono incerti sul futuro del nostro paese e questa incertezza si origina da tre fronti. Primo: come verranno trattati i proventi se sul lavoro e sulle tasse abbiamo i cosi più alti? Secondo: la pubblica amministrazione non è in grado di dare risposte in tempi certi e siamo il paese dei ricorsi. Il terzo è l’aspetto più preoccupante: abbiamo una carenza di capitale umano; per i nostri lavoratori non c’è formazione».

C’è da domandarsi, a questo punto, se il responsabile economico del Pd conosca l’esistenza di una competitività internazionale con la quale, piaccia o meno, il nostro sistema produttivo deve confrontarsi, se sappia spiegare come mai in questo contesto da decenni perdiamo quote del mercato mondiale in termini superiori a quelli dei paesi nostri partner europei, come mai la nostra bilancia commerciale in materia di prodotti ad alta tecnologia è da sempre fortemente in deficit, se consce l’entità della disoccupazione italiana anche nei livelli ad alta formazione, da dove abbia tratto le informazioni sul costo del lavoro nei vari paesi; se ha sentito parlare della fuga dei cervelli, se conosce la cattiva distribuzione dei redditi e dei carichi fiscali. E infine se conosce qual è stato l’andamento degli investimenti, anche quelli privati, negli anni passati e cioè il fatto che questi sono stati in termini quantitativi – ad eccezione degli ultimi anni – del tutto simili e sovente anche superiori a quelli degli altri paesi, mentre molto diversi e inferiori sono stati i risultati economici misurati in termini di valore aggiunto o di sviluppo o di competitività, o simili.

Dunque, secondo il responsabile economico del Pd, prima di immaginare una possibilità di riprendere uno sviluppo tale da tradursi, con degli investimenti, in un aumento non marginale dell’occupazione, occorre avviare e portare a un minimo risultato la semplificazione e lo snellimento della burocrazia, una corretta formazione dei lavoratori e una riduzione delle entrate pubbliche provenienti dalle tasse sul lavoro e sul capitale.

Non è certo l’unica strada possibile, ma immaginando di assumerla, si pongono alcuni interrogativi. Se da alcuni lustri i nostri investimenti hanno una efficacia, in termini di sviluppo, del tutto differente e peggiore di quella degli altri paesi nostri partner, sarebbe opportuno capire meglio di che si tratta: rinviare gli investimenti per farli precedere da riforme – sulla carta positive – per scoprire alla fine che la questione era un’altra, è un rischio grave che andrebbe evitato. Certamente non si tratta di un semplice cambiamento di punto di vista dal momento che l’attenzione dovrebbe spostarsi dal lavoro – e da tutti i guai già prodotti in questo campo – al capitale, aprendo finalmente una riflessione politicamente molto impegnativa.

In conclusione sembra evidente che distinguere e separare quelle «riforme» della burocrazia, come premesse per lo sviluppo, appaia come una escamotage per rinviare delle scelte politicamente rilevanti e che possono essere per molti particolarmente scomode. Ma deve essere altrettanto chiaro che attuare – nella migliore delle ipotesi – una riforma della burocrazia, della giustizia e della formazione – senza aver fatto una scelta sulla qualità e quantità degli investimenti, sarebbe una scelta di conservazione, cioè in linea con il permanere dell’attuale crisi.