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Investimenti, crolli a catena

Nuova finanza publica Se gli investimenti pubblici fossero ritenuti davvero essenziali non dovrebbero essere in contrazione dal 2009, per una percentuale che nel 2016 per esempio ha raggiunto il 4,4%, pari a 1,6 miliardi. Proprio un anno in cui l’Italia poteva sfruttare una clausola di flessibilità concordata con l’Europa e costituita da un ulteriore spesa pari a 4 miliardi (cioè lo 0,25% del Pil), rischiando addirittura la revoca di tale concessione

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 15 aprile 2017

Sulle colonne de Il Sole 24 Ore l’economista di impronta keynesiana Pierluigi Ciocca ha lanciato il sasso (i bassi investimenti) nello stagno (la bassa crescita). Il problema, nota l’ex dirigente di Banca d’Italia, è di ordine generale in Italia, in quanto gli investimenti complessivi restano «drammaticamente inferiori» ai livelli antecedenti la crisi. Rispetto al 2007, infatti, sono inferiori del 28%. Ciocca pone l’attenzione in particolare sugli investimenti pubblici che nel 2009 si attestavano ancora a 54 miliardi per scendere nel 2016 a soli 36.

Secondo l’econometria del Fmi, l’effetto moltiplicatore degli investimenti pubblici, che dovrebbero trascinare gli investimenti privati, sarebbe pari a 2 mentre quello basato su trasferimenti e detassazione sarebbe appena dello 0,7-0,8%. In definitiva Ciocca critica le politiche basate sugli incentivi portate avanti perlomeno dagli ultimi due governi.

In Europa i dati non divergono almeno nel senso di marcia: gli investimenti fissi lordi totali sul Pil erano del 23% nel 2008 e sono scesi al 19,8 nel 2015 mentre in Italia sono passati dal 21,2 al 16,6%, nel medesimo arco di tempo gli investimenti pubblici in Europa sono crollati dell’11% e in Italia del 23. A Ciocca risponde l’economista Giampaolo Galli, attualmente deputato di maggioranza, sostenendo innanzitutto che gli investimenti contabilizzati come pubblici non esauriscono le spese che possono svolgere una funzione di volano per l’economia, citando ad esempio gli stipendi degli insegnanti che rientrano nelle spese correnti. Inoltre sostiene che l’effetto moltiplicatore non riuscirebbe a dare i risultati sperati e dunque finirebbe per aumentare il debito. In ogni caso Galli ritiene che trasferimenti e taglio delle imposte possano dare risultati più significativi e ribadisce quindi che «gli investimenti pubblici sono essenziali, ma non sono l’unica ricetta per la crescita». Si può riconoscere che l’effetto moltiplicatore sia rarefatto in tempi di economie fortemente internazionalizzate, e dunque abbia perso funzione sistemica, così come si dovrebbero riconoscere i limiti di una crescita puramente quantitativa in tempi di crisi ecologica, ma non possono essere sottaciuti due problemi di ordine strettamente politico-economico. Il primo riguarda il fatto che se gli investimenti pubblici fossero ritenuti davvero essenziali non dovrebbero essere in contrazione dal 2009, per una percentuale che nel 2016 per esempio ha raggiunto il 4,4%, pari a 1,6 miliardi. Proprio un anno in cui l’Italia poteva sfruttare una clausola di flessibilità concordata con l’Europa e costituita da un ulteriore spesa pari a 4 miliardi (cioè lo 0,25% del Pil), rischiando addirittura la revoca di tale concessione.

Il secondo problema è rappresentato dalla contrazione degli investimenti privati che in Italia è stata più accentuata che in quelli pubblici. Gli investimenti privati nel 2009 e nel 2011 sono crollati per ben due volte del 15%, un calo senza precedenti nel giro di pochi anni per un’economia avanzata. Un crollo, nonostante un recupero del 4% nel 2016, ancora lontano dall’essere riassorbito per intero. Se poi paragoniamo la voce investimenti a quella dei consumi possiamo verificare come solo quest’ultimi non siano crollati verticalmente e in parte abbiano recuperato il loro andamento, dando conto di quale sia il principale contributo fornito a una seppur insufficiente crescita. La rivista statunitense Jacobin sottolinea come negli Usa i nuovi investimenti siano realizzati quasi esclusivamente attraverso incentivi e riduzione della pressione fiscale e finisce per parlare di come sia in corso uno «sciopero dei capitalisti». In Italia tale tendenza sembra a uno stadio ancor più avanzato. Se il keynesismo non è in grado di risolvere compiutamente i mali dell’attuale economia il pensiero mainstream sembra addirittura rimuoverli.

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