Chi vuole uccidere Boris, tecnico all’università che vive con la moglie in una casa che fa parte di un complesso residenziale con parco e collina adiacente? Chi, una sera, ha sparato alla finestra rischiando di ucciderlo? Ma: era proprio lui il bersaglio? Da questo pre-testo si sviluppa l’ossessione di un uomo che è al centro di Inventura (Inventario), opera prima del regista sloveno Darko Sinko, in concorso al Bergamo Film Meeting. Formatosi all’Accademia di Teatro, Radio, Film e Televisione di Lubiana e già autore di un nutrito gruppo di cortometraggi e documentari, Sinko esordisce nel lungometraggio di finzione con un film dallo sguardo nitido, dalla messa in scena precisa, sottovoce, nel contenere e far coabitare realismo, una paranoia che sfiora il surreale, tocchi di umorismo. La quotidianità di quell’«uomo tranquillo» si trasforma in un incubo, un «cul-de-sac» che lo avvolge, nel quale sprofonda, dal quale non riesce a sottrarsi neppure quando le cose sembrano trovare una soluzione. La sua ossessione non lo abbandona. E, una volta che la polizia ha archiviato il caso non risolvendolo, non individuando un colpevole, Boris, non credendo alla coincidenza di quanto accaduto, inizia a andare in giro, seguire persone, cercando di capire se e eventualmente chi gli possa volere male.

COINVOLGE, in questo gioco di pedinamenti e sospetti, la moglie, il figlio che ha una sua famiglia, la sorella. E non si convince neppure quando un responsabile potrebbe infine essere stato trovato – in realtà si tratta di un ulteriore depistaggio narrativo (la sceneggiatura è dello stesso Sinko). Così, il sollievo che Boris aveva provato svanisce e lui ri-comincia a sospettare di tutti. E il suo personale «inventario» non conosce fine in un film che, elaborando le molteplici variazioni e fughe attorno a un soggetto che fin da subito si impone per la sua radicalità, descrive insicurezze sociali e dinamiche relazionali con una punteggiatura originale e, proprio perché «minimalista», graffiante. Per riflettere, come afferma Sinko, sulla «solitudine, la ricerca dell’amore, la paura, il dubbio» all’interno della società odierna e di una coppia che, di fronte a un evento estraneo e inatteso, scopre le proprie fragilità in una progressiva decomposizione delle certezze.

RELAZIONI FAMILIARI sono indagate anche in Die Saat (Il seme, sempre nel concorso di finzione del festival). Questa volta siamo in Germania, in un posto fuori Berlino dove Rainer, ingegnere in un cantiere edile, la moglie Nadine, che lavora in un ospedale, e la figlia tredicenne Doreen si sono trasferiti per via della gentrificazione e in una casa ancora da completare. Lampi di luce estiva «bagnano» il film di Mia Maariel Meyer, metà tedesca e metà finlandese, qui alla sua opera seconda. Come Inventura, Die Saat pone in primo piano l’evaporazione di certezze di personaggi le cui vite subiscono cambiamenti imprevisti proprio quando, come nel caso del film di Meyer, sta per arrivare un secondo figlio. Rainer è colpito da un declassamento lavorativo. Doreen conosce una coetanea, la cui famiglia è ricca e detestabile, che le insegna a fumare ma anche a rubare. Die Saat procede in parallelo tra l’esplorazione di una crisi individuale e collettiva, di comportamenti che innescano tensioni sempre più profonde su un luogo di lavoro, tra il cinismo di nuovi padroni e lo sfruttamento degli operai, e il soffermarsi sul legame profondo esistente tra il padre e la figlia (ben interpretati, con ottima alchimia recitativa, da Hanno Koffler e Dora Zygouri). Un legame intenso, sincero, complice, che si manifesta in una moltitudine di sfumature leggere e drammatiche che costituiscono le scene migliori del film.

INSIEME a quelle della scoperta di nuove pulsioni da parte di Doreen grazie alla nuova amica: giochi, litigi, giri in bicicletta, l’amicizia con un cavallo. Mentre la questione dello sfruttamento nel cantiere prende spazio. Ma pur aleggiando un certo schematismo di sceneggiatura e montaggio, Die Saat mantiene una convincente flagranza visiva.
Da segnalare, della personale dedicata a Danis Tanovic, il cortometraggio d’esordio del cineasta bosniaco poi divenuto celebre con film quali No Man’s Land, L’enfer, Cirkus Columbia. Nel 1996 Tanovic realizza un breve lavoro di tredici minuti, L’aube, produzione belga, in bianconero con la scena finale che «trasloca» nel colore quando la persona protagonista – un uomo duramente segnato dai conflitti in corso in quegli anni nella Jugoslavia che si sta spappolando, senza braccia e cieco dopo l’esplosione di una granata vicino a Gorazde, in Bosnia -, rifugiatasi in Belgio, ritrova i familiari venuti a ricongiungersi. Una scena di forte emozione in questo piccolo immenso film fatto di primissimi piani, viaggi in auto, gesti quotidiani nella nuova casa dell’uomo che in voce off racconta la sua storia fatta di guerra, separazioni, fughe, ri-inizi. Ripete parole e frasi. Finché la tensione dell’attesa si scioglie in lacrime e abbracci.