In una piazza Sempione assolatissima a Roma ieri Capitan Calamaio, un personaggio teatrale popolarissimo tra i bambini, spiegava a una folta platea di treenni e quattrenni il l’importanza della storia: “C’è un’isola dove sono naufragato che si chiama isola del sapere, dove c’è la gigantesca Biblioteca Leggendaria, dove ci sono tutti i libri del mondo. A me è stato dato il compito di portare ovunque i libri”; subito dopo Luciana Castellina parlava del futuro e del passato di questa città: “Un luogo è diverso da uno spazio, ha un’identità, un vissuto. Dobbiamo inventare una città degli umani. Parlare in questa piazza Sempione per me è commovente; qui abbiamo fondato il primo circolo del Manifesto”.

Insieme a Rossella Muroni e Giovanni Caudo difendeva un progetto di pedonalizzazione che significa riprendere possesso della dimensione pubblico in modo radicale. Stare in piazza è un’abitudine che abbiamo perso? Stare in piazza in più generazioni è una pratica che ci siamo dimenticati? Stare in piazza a discutere di politica è un diritto che ieri un’intera città si è ripreso: “Qui facevamo comizi, ed era una cosa molto bello. Che è una cosa diversa dalle chiacchiere televisive. Questa è la parte più dolorosa della crisi della politica”.

foto Christian Raimo

Piazza Sempione è stata solo una delle piazze dove ieri ci sono state assemblee, tavoli di lavoro, confronti, interventi, proteste intrecciate, convergenti. Piazza del Popolo con la protesta dei bauli, San Lorenzo con una mobilitazione per il Nuovo cinema palazzo a piazza dei Sanniti, il Quadraro con la commemorazione del rastrellamento nazista, fino a Ciampino dove c’è stata un sit-in femminista contro la violenza di genere. Al Globe theatre l’occupazione, nata mercoledì scorso, si è articolata nel prato esterno in una serie di discussioni, dalle tutele per i lavoratori dello spettacolo agli spazi culturali romani. Dentro: una lunga vivacissima assemblea sui nuovi italiani e sui movimenti antirazzisti. Vecchi militanti e ragazze del liceo mostrano una cosa semplice: non soltanto c’è una nuova generazione che ha cominciato a fare politica negli ultimi anni, nonostante i veleni del sovranismo, le passioni tristissime e la crisi pandemica; ma soprattutto questa generazione sta elaborando un livello di riflessione politica inedita e sfidante per la classe politica che al confronto sembra davvero inadeguata.

La cultura del femminismo, quella del mutualismo, un antirazzismo che è di fatto un universalismo dei diritti, informano i discorsi di questa nuova stagione politica. Le vertenze sono radicali ma molto concrete: prima di tutto, una nuova fase di sindacalizzazione. Le sigle come le Claps (camere del lavoro precario autonomo), i Risp (la Rete intersindacale dei professionisti spettacolo e cultura), o Unita (unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo), con le rispettive differenze, sono diventate riferimenti in quest’anno di pandemia, e pongono un’urgenza improcrastinabile: contrattazioni collettive, protagonismo politico dei lavoratori, estensione delle tutele per un lavoro che non può essere precario e sfruttato, e un programma esteso di formazione professionale.

Non è un caso che questa stagione di lotte cresca a Roma e nelle città, anche se da molte parti d’Italia oggi converranno per l’assemblea nazionale al Globe theatre. Le città, e Roma più delle altre, sono state trasformate negli anni prima della pandemia in fondali per un turismo vile: l’idea della cultura “petrolio d’Italia” si è tradotta in un’estrazione violenta che ha succhiato la vita alle città. Si è immaginato che in Italia la cultura corrispondesse essenzialmente al turismo di basso livello, pensando che si potessero trasformare città, paesi, paesaggi in un gigantesco parco a tema, e i lavoratori della cultura tutti in animatori di villaggi vacanze, a smontare i palchi per i grandi eventi alle tre di notte senza tutele. È sembrata questa la vocazione culturale dell’Italia: eventi senza relazione con il territorio, alveari di airbnb che sostituiscono i centri storici, ristorante tipici come simbolo d’identità culturale.

Non è soltanto la pandemia che ha messo in crisi questo modello di monocultura estrattiva e grama, ma è evidentemente un modello che non regge in sé: con la sudditanza culturale nei confronti della televisione o dei social, con la sua incapacità di reinventare lo spazio pubblico, con la sua indifferenza per qualunque forma di emancipazione sociale. “Con la cultura non si mangia”, “la cultura petrolio d’Italia”, “gli artisti che ci fanno tanto divertire”, “la Netflix della cultura”: questa è la storia delle retoriche meschine degli ultimi due decenni. Nel frattempo la città è diventata minima, come lo stato minimo: una serie di case dove si lavora in smartworking e si fanno acquisti online. Intorno la città che si autosfrutta: uno spazio pubblico a misura della logistica di Amazon (che quest’anno è diventata in Italia la quarta società per fatturato dopo Eni, Enel e Fca, con una crescita del 60 per cento). Se c’è un compito che ci aspetta per i prossimi mesi è occupare il più possibile le piazze e sindacalizzarci.