L’approdo ancora non c’è ma la vicepremier spagnola Nadia Calvino, a nome della presidenza di turno della Ue, vede terra all’orizzonte: «Manca l’ultimo miglio ma come si dice nel cammino di Santiago si comincia a intravedere la cattedrale». Quel che si intravede, al secolo il nuovo Patto di stabilità che dovrebbe entrare in vigore dal primo gennaio 2024, evidentemente non piace molto all’Italia che cala la sua carta più pesante. Avverte e minaccia, sia pure in via informale: «Se l’accordo non sarà soddisfacente non lo firmeremo. Meglio tornare alle vecchie regole che un accordo fatto male». Calvino smentisce, «nessuno ha parlato di tornare alle vecchie regole», ma il senso della voce fatta filtrare dal Mef e supportata dalla mancata firma italiana in calce alla riforma del Mes è chiaro.

Le prossime tappe dovrebbero essere un nuovo vertice Ecofin eccezionale a fine mese per poi arrivare alla conclusione in quello dell’8 dicembre. I passi avanti sostanziali che giustificano l’ottimismo della spagnola sono frutto dell’intenso lavoro diplomatico della Francia. Macron si è dato molto da fare. Ha trattato direttamente con la Germania, in buona misura scaricando l’Italia in cambio del semaforo verde agli aiuti di Stato per le sue centrali nucleari. La bozza d’accordo, spiega Calvino, coniuga «la necessità di avere disciplina» con quella «di assicurare controciclicità». Una quadratura del cerchio che sembrava impossibile e in effetti lo è. La proposta concede qualcosa alla richiesta italiana di scorporare dal conto del deficit le spese strategiche, però col contagocce. Per il resto dà piena soddisfazione agli imperativi del falco di Berlino, il ministro delle Finanze Lindner, che ha trattato la faccenda direttamente con Macron a Parigi.

Sia pur in un testo che nel giro di un mese sarà senza dubbio limato nella sua parte essenziale, cioè i dettagli e i particolari, il progetto prevede la riduzione fissa del debito in 4 anni che possono salire a 7 in caso di comprovate spese eccezionali: è il poco che ottiene l’Italia. Tra le spese che possono essere addotte a giustificazione del ritardo figurano il Pnrr e le spese militari. Non gli investimenti per le riconversioni ecologica e digitale, come reclama l’Italia.

La Germania, oltre a incassare il rientro fisso, strappa anche la creazione di una zona cuscinetto sul tetto del 3% per il deficit, con l’obiettivo di assicurare il rispetto di quel parametro. L’Italia non dovrà dunque arrivare solo sotto il 3%, obiettivo fissato per il 2025, slittato al 2026 e di riuscita molto incerta, ma intorno al 2,5%. È vero che probabilmente verrà aggiunta una norma in base alla quale il rientro sul debito e quello sul deficit saranno scollegati e il secondo avrà la precedenza. Ma per arrivare al 2,5% nel 2026 con una crescita che l’anno prossimo, per previsione unanime salvo l’Italia stessa, sarà molto inferiore al previsto 1,2% bisognerà andare giù con le cesoie. Nella situazione che si profila in base all’accordo stretto d’autorità da Francia e Germania, tagliando fuori tutti gli altri e in particolare proprio l’Italia, il governo Meloni dovrebbe prepararsi a governare senza poter spendere nulla, neppure per confermare misure come il taglio del cuneo fiscale per il 2025 e figurarsi per mantenere le altre promesse.

Si può capire perché a Roma ci sia chi carezza l’idea di imporre il ritorno alle vecchie regole non firmando la riforma. Quelle regole erano senza dubbio più severe, ma anche molto flessibili. Il nuovo patto sarà anche un po’ meno severo ma è molto più rigido. Non a caso il gruppo leghista al Parlamento europeo ha sempre puntato sul ripristino delle vecchie regole: «Tanto non le rispetta nessuno». Ma la mossa sarebbe davvero estrema. Al momento la minaccia serve soprattutto per cercare di strappare qualcosa in più di qui all’8 dicembre.