Intervista a Maung Zarni, Rohingya nel governo clandestino del Myanmar
Dopo il golpe I rappresentanti dei Rohingya si sono incontrati molte volte con quelli di Nug e Crph sul web. Si sono incontrati due settimane fa con la maggior parte dei membri del gabinetto
Dopo il golpe I rappresentanti dei Rohingya si sono incontrati molte volte con quelli di Nug e Crph sul web. Si sono incontrati due settimane fa con la maggior parte dei membri del gabinetto
Mentre la leader della Lega nazionale democratica (Nld) Aung San Suu Kyi è apparsa ieri per la prima volta di persona davanti ai giudici birmani che hanno subito aggiornato l’udienza, dal Paese in fiamme giungono notizie di bombardamenti che hanno sventrato due chiese nello Stato del Kayah dove gli sfollati avevano cercato rifugio.
E Maung Zarni, personaggio di spicco della diaspora Rohingya conferma a il manifesto la sua designazione a consigliere nell’esecutivo clandestino (Nug): una scelta che dovrebbe essere seguita da una carta d’identità per la minoranza musulmana espulsa dal Paese nel 2017 e che vive, accusata di essere una comunità di immigrati clandestini bengalesi, nei campi profughi del Bangladesh. La conversazione con Maung Zarni avviene via computer. È prudente.
«NON È ANCORA CHIARO lo schema per una National Registration Card (Nrc) per i Rohingya – dice – anche se ci si aspetta che il Nug faccia un annuncio politico a questo riguardo nel giro di una settimana. I rappresentanti dei Rohingya si sono incontrati molte volte con quelli di Nug e Crph (parlamento clandestino ndr) sul web. Si sono incontrati due settimane fa con la maggior parte dei membri del gabinetto. Ma – aggiunge – i Rohingya stanno… trattenendo il fiato sulla politica del Nug. Quanto a me, il mio appuntamento è durato meno di un’ora!»
SULLA FORZA REALE del Nug non è ottimista e gli appare come un esecutivo ancora fragile e anche ostaggio di vecchie logiche: «È impotente ed è anche improbabile che arrivi al potere, a mio avviso, in questo disordine oscuro, completo e totale».
Non di meno il passo è stato fatto anche se sembra molto in salita. «Il dottor Sasa, il principale portavoce e ministro della cooperazione internazionale, mi ha chiesto di entrare nella sua squadra. Ha detto che aveva il potere di scegliere e di scegliere chi voleva. Dopo che ci siamo parlati ho accettato, ormai una settimana fa. Ma quando ha pubblicato la lettera di designazione ufficiale – dunque non ancora di nomina effettiva – è stato vittima di attacchi da parte della vecchia guardia dell’Nld complice del genocidio e che sta nel Nug. Anche se l’annuncio ha ottenuto quasi un milione di like sulle pagine ufficiali e personali ed è stato reinserito o apprezzato per quasi 10mila volte in meno di 60 minuti… il che indica un intenso interesse per il fatto che io e Sasa lavoriamo insieme».
Ma tra il dire e il fare… «Il problema – conclude – è che la maggior parte dei lealisti di Suu Kyi nuota con un peso morto: l’eredità della complicità nel genocidio e almeno quattro ministri del Nug – i più influenti – è certo che non romperanno con il passato. È il gruppo del resto che ha dichiarato l’abolizione dell’intera Costituzione militare del 2008 ma che non ha il coraggio, l’etica o l’intelligenza per capire che la Legge sulla cittadinanza del 1982 è stata progettata come la legge sulla razza di Norimberga, che de-germanizzava gli ebrei dell’Europa orientale. Così come non vogliono vedere che era un decreto del generale Ne Win, timbrato dal suo sgangherato parlamento socialista. Gente che ha continuato a insistere sui percorsi verso la cittadinanza sostenuti dal rapporto della Commissione Annan, che però di fatto sanava anche i crimini dello Stato contro i Rohingya».
PER ADESSO, dice Maung Zarni «non c’è ancora una misura concreta riguardo alla cittadinanza Rohingya mentre i nazionalisti Rakhine (lo Stato da cui sono stati espulsi quasi tutti tra il 2016 e il 2017 ndr) minacciano apertamente su Fb di massacraci se e quando ai ‘negri’ – cioè a noi – verrà concessa la cittadinanza». La piccola luce per ora illumina un tunnel ancora buio.
La situazione in Myanmar continua intanto a segnalare l’escalation di una protesta e di una repressione che si stanno trasformando in guerra aperta: con raid aerei, operativi di fanteria e cannonate, come quelle che hanno colpito la chiesa di Kayan Tharyar (7 km da Loikaw, capitale del Kayah) dove gli sfollati cercavano protezione e dove sono morte almeno due donne. Anche la cattedrale del Sacro Cuore di Pekhon è stata danneggiata dai colpi di artiglieria.
I gesuiti, che hanno pubblicato anche le foto delle chiese sventrate, hanno condannato gli «odiosi crimini» chiedendo che «i militari, che devono immediatamente smettere gli attacchi contro i civili e le chiese, siano chiamati a risponderne».
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