Cultura

Interrogativi e sfide degli studi decoloniali

Particolare dal murale «The Maidu Creation Story», National Museum of the American Indian, WashingtonParticolare dal murale «The Maidu Creation Story», National Museum of the American Indian, Washington

Scaffale Oltre una decina i saggi raccolti nel volume collettivo «Pensare con Abya Yala. Pratiche, epistemologie e politiche dall’America Latina», pubblicato da editpress. A cura di Venturoli, Ribeiro Corossacz, Balletta, Di Eugenio

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 25 giugno 2024

La chiamiamo America Latina, ma sarebbe più corretto utilizzare il toponimo Abya Yala, «terra che sanguina», «terra in piena maturazione» o «terra viva» in lingua dulegaya, parlata dalla comunità gunadule alla frontiera colombo-panamense.

UNA NOZIONE dalle molteplici sfumature proposta da diverse organizzazioni indigene come soluzione alternativa e autoctona per definire il subcontinente latinoamericano, come indica Simone Ferrari nel primo saggio del libro Pensare con Abya Yala. Pratiche, epistemologie e politiche dall’America Latina (editpress, pp. 220, euro 22). Curato da Alessia Di Eugenio, Sofia Venturoli, Valeria Ribeiro Corossacz ed Edoardo Balletta, il volume raccoglie i contributi di docenti, ricercatori e ricercatrici e attivisti/e attorno a concetti, teorie e pratiche politiche prodotte in America Latina/Abya Yala nel diversificato campo degli studi decoloniali, nel tentativo di rispondere a due principali interrogativi: sul modo in cui ci interpella in Italia la produzione di saperi ed epistemologie che sfidano l’eurocentrismo (e il razzismo e l’eteronormatività) e su come le conoscenze di questi contributi possono rinnovare quelle prodotte all’interno del nostro spazio universitario e oltre.

IL MOSAICO DI RIFLESSIONI che ne deriva prende il via dal riconoscimento che il pensiero decoloniale nel contesto di Abya Yala nasce, come scrivono i curatori del libro, «da esperienze e pratiche politiche radicate nella resistenza al rapporto sociale di colonizzazione», insieme alla consapevolezza di quanto tale pensiero sia strettamente vincolato al luogo in cui viene prodotto, «inteso come spazio politico storicamente e culturalmente condizionato». Che cioè, per dirla con la celebre frase di Paulo Freire, «la testa pensa dove stanno i piedi».

Senza nascondere però neppure la potenziale aporia che ne consegue: «Se, infatti, i rapporti di potere presenti nel luogo di produzione dei saperi influenzano in maniera determinante i caratteri di quello stesso sapere, come è possibile riflettere in termini decoloniali a partire da uno spazio fortemente plasmato dalla storia coloniale in quanto a pretesa egemonia culturale e di eurocentrismo?».

Del resto, quanto forte sia l’imposizione del pensiero eurocentrico – bianco, patriarcale e binario – sulla storia e le storie, lo indica bene il saggio di Javier González Díez, il quale evidenzia come la narrazione storica dei testi si fondi a partire da «una linearità eurocentrica, che fa coincidere la storia universale con la storia del soggetto europeo e della sua espansione e presa di coscienza dell’esistenza del resto del mondo».

Da qui l’esigenza di cogliere tutta la pervasività della colonialità del potere e del sapere, cioè di quelle riflessioni e di quelle pratiche che, nate all’interno del colonialismo, si riflettono sulle società post-coloniali mantenendo l’uomo bianco eterosessuale e cristiano come modello ineguagliabile di umanità. E, di conseguenza, di concepire e diffondere una conoscenza – in termini di «voci-prassi», cioè di teoria e pratica inscindibilmente connesse – che, al contrario, «risponda al bisogno delle “differenze coloniali”, che legga le lacune e le assenze storiche».

È in quest’ottica che il volume offre un contributo irrinunciabile alla divulgazione di autrici e autori di riferimento degli studi decoloniali con il loro vissuto di spossessamento, violenza e oppressione legato alla colonialità, ma anche di resistenza alla forza di distruzione dell’umanità e di produzione di un sapere «della cui saggezza solo ora cominciamo ad accorgerci»: amerindio, «amefricano», e ancora mestizo, kuir (al posto del troppo eurocentrico queer), fronterizo e spirituale. Solo per citare alcuni nomi, la giornalista Eliane Brum, il leader yanomami Davi Kopenawa, la sociologa boliviana Silvia Rivera Cusicanqui, la femminista e attivista del movimento nero Lélia Gonzalez, la femminista queer chicana Gloria Anzaldúa, l’indimenticata Marielle Franco.

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