Capire il suicidio, pensare il suicidio. Senza giustificazioni psicologistiche, senza condanne morali o religiose. Questo l’obiettivo di Simon Critchley (Note sul suicidio, Carbonio, pp. 155, euro 9, traduzione di Alberto Cristofori) in un libro consapevole della natura anche metafisica della questione. Con essa infatti emerge in modo drammatico e chiaro il tema e l’esperienza della finitudine di ogni vita e non soltanto di quella umana.

NELLA NOSTRA SPECIE la consapevolezza acuta del tempo e della fine genera creazioni, passioni e culture ma anche una inquietudine che può diventare disperazione, una tristezza che può farsi totale, una sete di significato che può assumere i modi dell’autodistruzione.
L’atto suicida è un coagulo di passioni vitali, tra le quali per Critchley assume un posto centrale la vendetta nei confronti di chi ci ha deluso o tradito; la vendetta verso persone, gruppi, famiglie, circostanze; la vendetta verso lo stare al mondo che non ha mantenuto le sue promesse. Il suicidio come eccesso di passione e vicinanza alla vita, dunque. «I veri pessimisti non si uccidono» –lo ha pensato anche Cioran – ma guardano la vita e il mondo da una distanza che li salvaguarda.

Un esempio di tale distanza è l’atto dello scrivere, è la scrittura. Gesto che Critchley accosta alla morte, «nel senso che scrivere è un prendere licenza dalla vita, un temporaneo abbandono del mondo e dalle proprie meschine preoccupazioni per tentare di vederci più chiaro. Scrivendo, si fa un passo indietro e fuori della vita, per guardarla in modo più spassionato, nello stesso tempo da una distanza maggiore e da una maggiore prossimità. Con un occhio più fermo». Non so se sia davvero così. La scrittura è tempo in atto (si scrive una parola dopo l’altra) e ciò che rimane sfida il tempo. Se però la morte è distanza, la scrittura – è vero – le somiglia. Tuttavia scrivere è distanziarsi da sé per arrivare poi al cuore del sé. Per giungere alla parola, al pensare, al segno immortale.

SE IL SUICIDIO raccoglie una tale ricchezza di comprensione e prospettive, la sua condanna non è in realtà ovvia e tanto meno «naturale» ma è il frutto dell’affermarsi di ben precise prospettive religiose, quali i monoteismi, in particolare il cristianesimo e l’islam. La condanna penale del suicidio – con gravi punizioni per il cadavere e per i beni lasciati dal defunto – è stata la regola nei Paesi cristiani sino a tempi recenti; in molti Stati islamici il suicidio è tuttora un reato penale. Le civiltà pagane hanno tenuto di solito un atteggiamento ben diverso ed efficacemente sintetizzato da Hume quando ricorda che «la facoltà di suicidarsi è considerata da Plinio un vantaggio che gli uomini possiedono addirittura rispetto agli dèi», i quali non potrebbero darsi la morte anche se lo volessero.

È che le culture e filosofie politeiste sono molto più consapevoli della centralità della materia e della potenza della natura. Cosa che crea uno stretto «legame fra materialismo scientifico, libero pensiero antireligioso e diritto al suicidio», come si vede nelle filosofie libertine (ispirate da Spinoza) o in Hume. Di quest’ultimo il volume presenta in appendice il breve saggio Del suicidio, il cui fondamento è chiaramente «antropodecentrico».
Il filosofo scrive infatti che «la vita di un uomo non ha maggiore importanza per l’universo che quella di un’ostrica», allo scopo di delineare una prospettiva radicata in ciò che successivamente sarà chiamato termodinamica, l’incessante mutare di ogni ente (noi compresi) che il tempo scioglie per trasformarlo in altro.