Giorgia Meloni è stanca, febbricitante, sotto antibiotici. Si sfila le scarpe, si accovaccia sul divanetto a tre posti del suo studio e, dopo l’ennesima giornata di furore, dice la sua.

Così almeno la racconta Alessandro Sallusti, l’uomo a cui la premier ha affidato le riflessioni del suo ultimo libro, La versione di Giorgia (Rizzoli, 268 pp., 18 euro, in libreria da oggi, con il mercato editoriale saturato a destra dal boom del generale Vannacci) e che, prima di ogni capitolo, concede al lettore qualche pennellata di colore. C’è la fatica quotidiana, c’è la figlia Ginevra, c’è il marito Andrea: i tratti umani, troppo umani, del potere, perché guidare un governo è sempre un qualcosa di eroico e, si sa da qualche millennio, gli eroi sono persone come tutti gli altri. Un po’ più di tutti gli altri, certo, ma con gli stessi momenti di debolezza, gli stessi dubbi, gli stessi sfoghi.

Il sociologo giamaicano naturalizzato britannico Stuart Hall sosteneva che le puntuali cronache dei tabloid e i numerosi servizi televisivi sulla vita quotidiana di Margaret Thatcher fossero un elemento centrale di quello che chiamava «populismo autoritario». E la signora Thatcher, in effetti, appare spesso nel libro di Meloni. È anche l’ultimo nome citato nell’epilogo, che si apre con una frase di Tolkien sui grandi racconti che non avrebbero mai un finale. Del resto, se Maggie alla fine venne fatta fuori dal suo stesso partito, al momento Giorgia non sembra correre un rischio del genere, anzi.

Nel pantheon dei personaggi ci finisce anche Gustave Thibon, il filosofo contadino che secondo Meloni traccia un parallelo tra amore e libertà: «Io, che dopo mia figlia la cosa che amo di più è l’Italia, sono una donna veramente libera».

E la libertà è il suo orizzonte, spiega quando afferma che il fascismo «non fa parte del mio campo», perché lei e i suoi i conti con la storia li hanno fatti, mentre «loro» (la sinistra) no. Meglio parlare di «identità contro globalismo», o di sostituzione etnica: «Etnia e razza sono due parole che significano cose molto diverse», dunque non c’è niente di male a sostenere che la nostra identità culturale sia sotto attacco.

Il resto del Meloni pensiero è quello noto e stranoto: fare il bipolarismo in Europa (cioè rompere la coalizione tra popolari e socialisti), sostenere Zelensky («Per l’Ucraina è l’uomo giusto al momento giusto»), «riequilibrare» la Rai dopo il presunto dominio della sinistra. Non manca la Melonomics, un ricalco quasi esatto delle politiche tatcheriane di quarant’anni fa. Nessuna critica all’amico americano Joe Biden, le cui colpe casomai sono di Obama, ma idee all’apparenza chiarissime sulla centralità italiana nel Mediterraneo (il piano Mattei) e un occhio alla riforma della Costituzione per «rendere questa nazione governabile», anche se non è una priorità, perché «ora un governo stabile c’è». Almeno secondo la versione di Giorgia, che, non fosse per lo stile, somiglierebbe sin troppo a quella di Barney, con le sue divagazioni per discolparsi da un’accusa di omicidio. E alla fine non sa più neppure lui se c’è riuscito o no.