Il termine Biodiversity, introdotto nel 1986 dall’entomologo americano Wilson, ha da allora aperto brecce nell’immaginario collettivo. La naturalista Valeria Barbi dedica ora alle narrazioni sottese da tale definizione il saggio Che cosa è la biodiversità oggi (Edizioni Ambiente, pp. 264, euro 18), in cui mette ordine nelle sue multiformi declinazioni ribadendo come «dopo essere stati il problema dobbiamo diventarne la soluzione».

Anche perché non abbiamo alternative. Esiste forse un piano B?

No, e non c’è alcun pianeta B. L’astronomo Carl Sagan, commentando una foto scattata alla Terra nel 1990 dalla sonda Voyager 1, disse che «il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico». Pur intuendolo, continuiamo a perdere tempo – che so – col metaverso. A quanto pare, Homo sapiens non vuole emanciparsi dal perenne bisogno di affidarsi a un senso ingegneristico auto-contemplativo e fine a se stesso. Investire in una realtà virtuale sarebbe semplicemente un atto di codardia e di estremo egoismo: prendo quel che posso, tanto avrò la possibilità di costruirmi una dimensione altra. Eppure sappiamo, almeno dalla Conferenza di Stoccolma del 1972, che l’inerzia ci condurrà a un punto di non ritorno.

Lo spazio è un abisso disperato?

Di sicuro non lo è il nostro pianeta, del quale ignoriamo, a seconda dei report scientifici, tra l’86 e il 99,9 % delle forme di vita, avendo identificato 8,7 milioni di specie quando ne stimiamo un miliardo. Dei fondali oceanici, conosciamo appena il 5 %. Nessuno vuole negare il senso dell’evoluzione – basta lo sviluppo delle arti e della medicina per consolarci – ma serve ricordare che questa è indissolubilmente collegata alla biodiversità: è la natura a darci tutto. Se intacchiamo la biodiversità, perdiamo la nostra battaglia evolutiva.

E se ci elevassimo a demiurghi?

JCVI-syn3A è un microrganismo il cui genoma è stato creato in un laboratorio del Maryland, nel 2010. Evidentemente ci serviva capire se ne fossimo in grado. E certamente la genetica ne trarrà giovamento. Ma investire le stesse risorse per sostenere una delle specie in crisi per colpa nostra sarebbe stato più utile: una singola estinzione provoca effetti a cascata perché siamo tutti interconnessi. Se i coralli dovessero scomparire, la ricchezza ittica mondiale si dimezzerebbe. Inoltre, studiare una specie ignota ci porta a scoperte epocali. Per esempio, negli anni di pandemia ci siamo affidati alla PCR: la tecnica di biologia molecolare usata per processare i tamponi e studiata a partire dal Thermus aquaticus, un batterio termofilo isolato per la prima volta nelle pozze di acqua calda dello Yellowstone.

Nel 1979 James E. Lovelock ha descritto gli ecosistemi come entità indissolubilmente legate all’intera biosfera. L’ipotesi Gaia ha qualche merito?

Secondo Lovelock la biosfera contribuirebbe a mantenere stabile la temperatura globale, la salinità, il livello di ossigeno nell’atmosfera e gli altri fattori di abitabilità del pianeta, in una omeostasi perfetta. Trovo la sua teoria, filosoficamente, di qualità. Riconoscere nella natura un principio di interconnessione trasfigura ai nostri occhi la Terra in un’entità vivente composta da infiniti sotto-organismi che interagiscono positivamente. I limiti risiedono nelle falle del suo storytelling, spesso infatti ridicolizzato per bersagliare i movimenti ambientalisti. Al di là del dubbio valore scientifico, l’ipotesi Gaia offre una metafora veritiera di come funziona la Terra: se narrata nel modo giusto, può essere preziosa. Soprattutto perché siamo nel pieno della sesta estinzione di massa. Con un’aggravante: il meteorite, stavolta, siamo noi.

I Paesi ricchi hanno un debito ecologico da saldare?

Per secoli abbiamo strutturato il nostro modello economico sul concetto di debito, uno degli strumenti politici di dominio nei confronti dei Sud del mondo. Non abbiamo tuttavia mai considerato la prospettiva opposta: il degrado causato dal sovrasfruttamento delle risorse naturali nelle terre dei popoli colonizzati, sul quale abbiamo fondato il nostro «progresso» e la loro povertà. Perfino la nascita della conservazione è stata manipolata a uso e consumo degli occidentali. Ancora in questi giorni, nel Kenya settentrionale, con il pretesto della tutela vengono espropriati territori ancestrali a comunità di pastori, per altro per dubbi fini, in una sorta di neocolonialismo ecologico.

Cosa intende per biofilia, in una delle interviste inserite nel libro, Ferdinando Boero?

Boero, professore di zoologia all’Università di Napoli, sostiene che gli esseri umani possiedono uno slancio istintivo verso la natura, ma già nell’infanzia sono trattati culturalmente dai sistemi educativi in modo da rimuoverlo per sostituirlo con valori allineati al sistema economico predominante. Ma noi siamo parte della natura: allontanarla porta a disturbi del comportamento, soprattutto nell’età dello sviluppo. L’esposizione alla natura limita lo stress e ci rasserena. La curiosità e il desiderio della scoperta si sviluppano con difficoltà lontano da essa.

David Quammen, a una sua domanda, risponde che la speranza è un dovere morale e non un’emozione. È controproducente l’eco-ansia?

Certo. E non si può demandare alle nuove generazioni, infondendo un inutile senso di colpa, ogni responsabilità sui cambiamenti climatici. Urgenza c’è, ma va comunicata con cura. Già abbiamo raccontato ai giovani che andranno incontro a pandemie, guerre, instabilità professionale. Pensiamo così di favorire in loro un’attitudine proattiva? Ciò nonostante, sono consumatori più attenti, guidati da scelte etiche. E stanno lanciando movimenti di un’efficacia mai vista. La dodicenne canadese Severn Suzuki, con il suo discorso al Vertice della Terra dell’Onu nel 1992, aveva già urlato che i genitori stanno lasciando ai figli un’eredità tremenda. Ma l’impatto avuto dai moniti di Greta Thunberg è decisamente superiore.

Che farà ora?

Dal 15 luglio, per oltre un anno, con il reporter Davide Agati viaggeremo in van dall’Alaska all’Argentina allo scopo di documentare gli impatti delle attività umane sulla biodiversità attraverso le storie di chi prova a fare la differenza. Abbiamo chiamato il progetto WANE: We Are Nature Expedition. Vorremmo imparare, vivendo con le comunità contattate, le buone pratiche da esportare. In Europa, intanto, trovo interessanti le assemblee deliberative sul clima sperimentate in Francia, cui hanno partecipato, oltre agli esperti, cittadini estratti a sorte e statisticamente rappresentativi della popolazione, alla ricerca di un’intersezione tra ecologia e giustizia sociale.