Insieme dimostrammo che una Chiesa al servizio degli ultimi era possibile
Il ricordo dei suoi «compagni di strada» Incontro con Carlo Consigli, Claudia Daurù, Gisella Filippi e Paola Ricciardi. «Volevamo, e vogliamo ancora oggi, intrecciare il Vangelo con i bisogni delle persone, a partire dai disoccupati, i disabili, gli emarginati, ora i migranti e gli impoveriti»
Il ricordo dei suoi «compagni di strada» Incontro con Carlo Consigli, Claudia Daurù, Gisella Filippi e Paola Ricciardi. «Volevamo, e vogliamo ancora oggi, intrecciare il Vangelo con i bisogni delle persone, a partire dai disoccupati, i disabili, gli emarginati, ora i migranti e gli impoveriti»
Nel settembre 1968 un gruppo di giovani cattolici occupa la cattedrale di Parma per contestare le compromissioni della curia con il potere economico-finanziario. La parrocchia fiorentina dell’Isolotto, guidata da don Enzo Mazzi, esprime solidarietà agli occupanti. Il vescovo di Firenze, cardinale Florit, ordina al parroco di ritirare la lettera. Mazzi e l’intera comunità respingono l’ultimatum e, visto che il vescovo rifiuta il dialogo, iniziano a celebrare l’eucaristia in piazza, fuori dal tempio: è nata la Comunità di base dell’Isolotto. A dieci anni dalla morte di Mazzi – a lungo collaboratore del manifesto – ricordiamo quella storia con Carlo Consigli, Claudia Daurù, Gisella Filippi e Paola Ricciardi, suoi «compagni di strada» e componenti storici della comunità.
Quello di Mazzi non è stato il primo atto di disobbedienza di un prete, ma era la prima volta che tutta una comunità si ribellava. Cosa significò?
Le parole obbedienza e disobbedienza appartengono a una visione del mondo gerarchica e autoritaria che non era la nostra. In parrocchia, fin dal 1954, Mazzi aveva impostato le relazioni sulla riflessione, la discussione, la partecipazione, l’assunzione di responsabilità. La lettera di solidarietà agli occupanti era stata pensata insieme. L’aut-aut del cardinale Florit inviato al solo parroco, «o ritratti o ti dimetti», ci mise alla prova, però fu naturale dire che Enzo non doveva rispondere da solo, ma che noi dovevamo rispondere.
Dopo l’allontanamento di Mazzi dalla parrocchia, la comunità di base comincia a celebrare in piazza. Con quali istanze?
Volevamo dare concretezza ai valori evangelici e laici per costruire una società più giusta dove tutti avessero diritti e dignità. Sulla scia del Concilio Vaticano II, continuavamo a intrecciare il Vangelo con i bisogni delle persone, a partire dagli ultimi, i disoccupati, i disabili, gli emarginati, oggi i migranti e gli impoveriti. Abbiamo cercato l’essenzialità nella liturgia e ci siamo nel tempo liberati da quella «violenza del sacro» che divide credenti e non credenti, uomini e donne, preti e laici.
La comunità subisce delle provocazioni fasciste, ma la procura indaga cinque preti e undici laici per «istigazione a delinquere» e «turbamento di funzioni religiose»: avevano cercato di impedire al monsignore inviato dalla Curia e accompagnato da un noto gruppo di fascisti di celebrare la messa in chiesa, senza parroco dopo la rimozione di Mazzi. Quasi mille persone si autodenunciano per lo stesso reato, 358 vengono rinviate a giudizio, otto processate e poi assolte. Cosa rappresenta quella sentenza?
Al processo l’avvocato Lelio Basso disse che «non ci sono né istigatori né istigati, ma una comunità profondamente democratica che conosce i valori fondamentali che l’umanità sta faticosamente conquistando: il senso della propria responsabilità, il rifiuto delle obbedienze cieche». È vero, i processati furono «solo» cinque preti e tre laici, ma resero evidente all’opinione pubblica che era sotto processo un’intera comunità e la possibilità stessa di vivere il rinnovamento ecclesiale e sociale. L’assoluzione perché «il fatto non sussiste» rappresentò un segno di speranza, segnò il riconoscimento di una comunità democratica e mostrò che una Chiesa intesa come «popolo di Dio» al servizio degli ultimi, in contrapposizione a una Chiesa-istituzione al servizio dei potenti, era possibile.
L’impegno di Mazzi è durato fino alla sua morte. Cosa rimane oggi?
È difficile dire cosa resta di una vita spesa a costruire percorsi di liberazione nella Chiesa e nella società, non in solitudine ma insieme alla sua gente e a tanti compagni di cammino. Ha lasciato un segno profondo nella città e all’Isolotto, candidato a diventare una periferia emarginata e divenuto invece un quartiere dove la partecipazione è radicata, la solidarietà e l’accoglienza più sentite che altrove. Nella Chiesa è stato a lungo ricordato come il prete ribelle, emblema di una rottura che non ha cercato. Oggi è più facile vederlo connesso con tante aperture della Chiesa di papa Francesco, come un precursore del Concilio. L’attualità del suo pensiero sui temi etici, l’ambiente, i diritti, l’uguaglianza ci sembra evidente e sempre viva.
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