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Inseguirsi nel tempo di una passione impossibile

Inseguirsi nel tempo di una passione impossibile

Cinema «Via dalla pazza folla», Vinterberg rilegge il classico di Thomas Hardy

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 18 settembre 2015

La soap opera è la figura terminale dell’impotenza borghese. Vendetta trasversale contro le differenze e la forma, camuffata maldestramente dietro il manto della qualità. Chi oserebbe mai dire male del regista di Festen alle prese con Thomas Hardy? Dimenticate Polanski. Nulla può Carey Mulligan la quale, dopo Shame pare sia condannata a un’esibizione canora in quasi ogni film che interpreta.
Vinterberg, rifattosi una presentabilità da cineasta di qualità da esportazione dopo l’equivoco del Dogma, compone un manuale del cinema accademico asfittico e privo di qualsiasi guizzo vitale tanto da assurgere, perversamente, a una dimensione di rara perfezione manualistica al contrario. Il film scorre via con la pesantezza delle sceneggiature «scritte benissimo», «splendidamente» fotografato e interpretato «meglio».

La storia di Bathsheba Everdene, giovane donna passionale e indipendente che nell’Inghilterra del 1870 ha l’autonomia economica e decisionale (dopo aver ereditato una fattoria dallo zio), e la fermezza di respingere proposte di matrimonio è un classico fuori dal tempo. Ma nelle mani di Vinterberg viene ridotto a un banale romanzetto di formazione pseudofemminista, nel quale i moti dell’animo della protagonista risultano schematizzati secondo una logica televisiva nel senso più deteriore e fortunatamente sorpassato del termine. Nonostante il dispendio scenografico, gli interpreti si riducono a un carnet di espressioni e vezzi offerti con il pilota automatico.

Eppure, siccome la soap opera aspira all’arte mentre in realtà tenta di vendicarsi di essa, gli archi di Craig Armstrong mimeticamente immaginano scarti di regia e acuti che Vinterberg non è in grado di fornire. Resta dunque la frustrazione di un libro ridotto allo scheletro della sua «storia», inutilmente modernizzato, in cui si finge di soffrire e si lanciano sguardi carichi di qualsiasi cosa, tranne che di cinema.
Tutto ciò che è riconducibile al sentire è ridotto alla sua parodia intesa come paradossale ipertesto di ciò che il film in quanto forma e linguaggio non riesce a esprimere.
Quello di Vinterberg è il cinema più reazionario del mondo (proprio come la politica europea di cui è espressione perfetta). Pateticamente nascosto dietro i presunti proclami dell’arte e del politicamente corretto, afferma e legittima l’esistente con gli strumenti del consenso di ieri.

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