Inquietudini della coscienza puritana in un racconto di Louisa May Alcott
Ottocento americano «Un sussurro nel buio», Galaad
Ottocento americano «Un sussurro nel buio», Galaad
Pubblicato in forma anonima da Louisa May Alcott su uno dei quotidiani di Frank Leslie nel 1863, cinque anni prima dell’uscita di Piccole donne, il racconto Un sussurro nel buio riappare per la cura di Alessandra Calanchi (Galaad, pp. 144, € 12,00) che già ne aveva fatto uscire una edizione in Stanze segrete, insieme a Maurizio Ascari. Di ascendenza britannica, il genere di questo racconto popolare non disperse gli originari elementi di detection una volta approdato nelle mani della giovane Alcott.
Forse proprio alle scene editoriali (ma anche teatrali) londinesi bisogna riferirsi per assegnare una più precisa collocazione letteraria a queste prose shocker, che dall’altra parte dell’oceano si continuavano a descrivere nei termini vaghi di «thriller», di «racconti gotici» e di melodrammi.
Calanchi fa bene a rispolverare questo intreccio ossessivo di forte presa emotiva, che Alcott destinò al rapido consumo di lettori americani, ancora in preda ai terrori coloniali, verso una varietà di presenze aliene (dalle nuove immigrate irlandesi ai nativi e agli schiavi in fuga dal sud).
Invisibili sulla scena pubblica, questi soggetti riemergevano con la forza dei loro vernacoli sulle scene di Drury Lane, minacciando l’ordine famigliare, che veniva poi meccanicamente ristabilito nel gran finale.
«Un sussurro nel buio» registra lungo tortuosi percorsi prefreudiani le violenze e le inquietudini che assediano la coscienza puritana, negli interni di una domesticità violata e pronta a trasformarsi, come scrive Calanchi, in prigioni tiranniche e in soffocanti labirinti edipici. Sempre in agguato, nel Nuovo Mondo, l’energia della wilderness era pronta a irrompere nelle fragili dimore coloniali con la forza inconscia di jamesiane «belve nella giungla». Nei suoi racconti puritani, Hawthorne descrisse la vulnerabilità degli insediamenti coloniali in quelle terre che erano ancora dominio incontrastato della natura. Prima che Frank Lloyd Wright assorbisse tutta l’esuberanza della natura nelle sue architetture a cielo aperto, in quelle terre selvagge l’unica versa presenza incongrua era quella dell’uomo.
Come scrisse Guido Fink nella sua introduzione alla prima versione italiana di questo racconto, il vero villain mefistofelico è proprio lo «zio» inflessibile venuto da lontano, un moderno Mefistofele, pronto a trasformarsi in «sposo-carceriere», e ad architettare matrimoni all’insaputa dell’orfana sedicenne di turno. Lo ritroviamo in altri racconti pseudonimi di Alcott, per esempio nel quasi coevo «Una donna di marmo», e nel romanzo Un moderno Mefistofele, uscito anonimamente e poi ripubblicato assieme a questo «Sussurro» subito dopo la morte dell’autrice.
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