Cultura

Inquieti fantasmi ai confini della realtà

Inquieti fantasmi ai confini della realtàUn esempio di «fotografia psichica» molto diffuso all’inizio del Novecento

GEOGRAFIE LETTERARIE Un percorso di letture tra storia, noir, romanzo gotico e fantascienza. Il nuovo volto di una tradizione cresciuta nelle terre incerte dove si incontrano scienza e irrazionale. Dall’elogio delle immagini degli spiriti di Arthur Conan Doyle alle indagini dell’«ufficio degli affari occulti». «È un insulto all’intelligenza sostenere che ci sia una spiegazione non sovrannaturale per un tale assortimento di testimonianze», spiegava il creatore di Sherlock Holmes. Nelle sordide strade della metropoli transalpina ci sono tendoni del circo che, una volta squarciati, rilevano un mondo dove il confine tra i vivi e i morti, si fa ogni momento più tenue

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 24 dicembre 2022

«È un insulto all’intelligenza sostenere che ci sia una spiegazione non sovrannaturale per un tale assortimento di stimabili testimonianze, precise e dettagliate, provviste di prove fotografiche e completamente purgate dal sospetto di trucchi e raggiri». Ci si potrebbe sorprendere che ad affermare con tanto insindacabile vigore che, sì, è possibile nientemeno che «fotografare i fantasmi», sia stato un lucidissimo medico e chirurgo inglese che traendo ispirazione dall’armamentario del positivismo aveva creato il detective maggiormente legato alla scienza dell’intera storia del romanzo poliziesco, Sherlock Holmes.

Un personaggio, il celebre investigatore che dal londinese 221B di Baker Street insieme al fidato dottor John H. Watson è abituato ad affrontare qualunque apparente mistero a partire da un rigido metodo deduttivo, anticipando così in larga parte i motivi caratterizzanti il giallo contemporaneo. Holmes analizza scientificamente ogni dettaglio, tranne poi arrestarsi, come accade ne Il segno dei quattro (1890), di fronte alla constatazione che «eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere vero». Niente a che vedere però con il testo che Arthur Conan Doyle scrisse nel 1922, quando era già uno scrittore affermato e riconosciuto, per «dimostrare la verità della fotografia psichica», formula con la quale all’epoca si definivano ombre e figure a prima vista «invisibili» ma considerate in grado di imprimere la propria immagine su una lastra fotografica; un volume proposto da Marsilio con la preziosa cura di Alessandro Giammei (Fotografare gli spiriti, pp. 184, euro 15).

IN REALTÀ, L’IMPEGNO del creatore di Sherlock Holmes a sostegno di tali tesi non stupisce chi ne conosca anche solo sommariamente la biografia. Il medico-scrittore di Edimburgo era infatti un fedele adepto dello spiritismo e un membro di peso della Society for the Study of Supernatural Pictures come della Society for Psychical Research e il suo approccio alla questione – in questo caso la denuncia come truffatori di un circolo che diffondeva le fotografie dei fantasmi – e intendeva offrire un sostegno a suo dire scientifico ad una narrazione decisamente cresciuta nel segno dell’irrazionale. «Ho un amico che pratica la fotografia spiritica da dilettante – scriveva Conan Doyle nel volume che era accompagnato da decine di tali immagini -. È passato, nel corso del tempo, da iniziali aloni luminosi sulle lastre a vere e proprie immagini assai graziose e perfette, a volte riconosciute come ritratti di persone morte». Eppure, continuava, «in qualsiasi scienza, il progresso si dà prestando attenzione ai risultati positivi (…ma) con la fotografia spiritica tale procedimento è stato invertito»: le ombre lattiginose che definiscono dei volti o delle silhouette in quelle foto non sono sufficienti per convincere i più che i fantasmi esistono e soprattutto se ne può catturare l’immagine.

Poco importa che a distanza di tempo la fonte di tutte quelle immagini si sarebbe ovviamente rivelata frutto di abili trucchi e i pratiche necessariamente truffaldine, lo stesso Conan Doyle aveva del resto già sostenuto la possibilità di «fotografare» altre «presenze» (Il ritorno delle fate, SugarCo, 1992). Quel che emerge da queste vicende è piuttosto l’esistenza di una sorta di porta girevole intellettuale tra due mondi in apparenza opposti e come la percezione di presenze non sempre riducibili al campo della ragione come, al contrario, a quello molto sommariamente indicabile come dominato dall’irrazionale, sfugga spesso per l’appunto ad ogni inventario culturale. Purché non sia quella di chi si pone lungo un territorio di confine, la postura che si sceglie di adottare.

ANCHE SE NON È CERTO intorno al catalogo dei fantasmi che Ursula K. Le Guin ha esercitato principalmente le sue doti di creatrice di mondi, l’idea che sia solo lungo una frontiera che può prendere corpo ogni sorta di ibridazione narrativa come qualunque tentativo di narrare il lato in ombra della realtà, nel suo caso prima di tutto il calco di genere e di classe imposto alla vita, non sfuggiva certo alla scrittrice californiana di fantascienza e di fantasy scomparsa nel 2018. «Le mie fantasie esplorano l’utilizzo del potere come forma d’arte e il suo uso improprio come forma di dominazione; corrono su e giù lungo la frontiera misteriosa tra ciò che crediamo reale e ciò che crediamo immaginario, esplorando le zone di confine», spiegava Le Guin nella raccolta di brevi saggi intitolata non a caso I sogni si spiegano da soli (a cura di Veronica Raimo, Sur, pp. 246, euro 18).

Inquieti testimoni letterarie della grande transizione che tra la metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale accompagnò l’affacciarsi dell’umanità ad una modernità fatta di ferro, fuoco e omicidi di massa – le storie di Edgar Allan Poe e di Sheridan Le Fanu, come il gran fiorire del genere nell’Inghilterra vittoriana -, l’ombra curiosa dei fantasmi non ha però mai abbandonato davvero la scena, fino a ritagliarsi uno spazio costante ad ogni latitudine narrativa. Seppur soltanto laddove autori e lettori accettino di suggellare un patto non scritto nel segno dell’incertezza e dell’ignoto, un altro modo per designare le aree tratteggiate dai confini interiori come da quelli spaziali.

Così, come annunciato fin dal titolo, torna il Natale con i fantasmi di Neri Pozza (pp. 240, euro 22), un’antologia che vede per il secondo anno consecutivo una decina di autori e autrici britannici – tra cui Bridget Collins, Natasha Pulley, Jess Kidd e Imogen Hermes Gowar – impegnati da tempo a ravvivare la tradizione del romanzo gotico e ad operare significative sortite nel fantastico misurarsi con i motivi ricorrenti del genere: case infestate, defunti che tornano a visitare i propri parenti, fotografi alle prese (di nuovo) con figure invisibili all’occhio umano, veri e propri «mostri».

Ma l’esplorazione delle terre incerte tra il dominio della ragione e l’esistenza di ipotesi «altre» rispetto ai contorni della vita umana, non attiene esclusivamente agli eredi della tradizione cui si ispirò, nella Londra di fine Ottocento lo stesso Charles Dickens per il suo celebre Canto di Natale.

UNO SCRITTORE FRANCESE, con una curiosa formazione in storia della Farmacia e un lavoro come docente universitario in questo campo, è all’origine di una serie narrativa di grande successo oltralpe di cui esce ora nel nostro Paese il primo capitolo. Si tratta di Éric Fouassier, autore de L’ufficio degli affari occulti (Neri Pozza, pp. 334, euro 20) un bizzarro polar nel quale il giovane ispettore Valentin Verne, passato rapidamente dalla Buoncostume alla Sureté indaga su crimini e assassinii dai contorni misteriosi nella Parigi di Luigi Filippo, il cui regno volgerà al termine sotto i colpi della «rivoluzione» del 1848. Quelle di Fouassier, destinate grazie al largo successo ottenuto in Francia a trasformarsi rapidamente anche in una serie tv, non sono le classiche storie di fantasmi ma, ancora una volta, tracciano un itinerario lungo i confini della ragione.

Valentin Verne non somiglia a Sherlock Holmes, ma il suo sguardo verso il terreno incerto dove i soli strumenti scientifici non aiutano a venire a capo di un caso ricordano almeno in parte il già ricordato atteggiamento del suo creatore, Arthur Conan Doyle. Nelle sordide strade della metropoli transalpina rese ancor più squallide e pericolose dalla restaurazione monarchica del dopo-Napoleone che ha riproposto diseguaglianze e sopraffazioni senza controllo, ci sono specchi in grado di introdurre a mondi paralleli, ma anche predatori seriali di giovani creature dal profilo non sempre riconducibile a fattezze umane e tendoni del circo che, una volta squarciati, rilevano una realtà dove il confine tra i vivi e i morti, le anime che hanno trovato quiete e riposo e quelle che vagano invece senza pace si fa ogni momento più tenue.

AL NOIR E AL GOTICO sembra guardare anche l’autore britannico Steven Hall che a circa quindici anni dal suo folgorante esordio con Le memorie dello squalo (Mondadori) torna con un romanzo ipnotico che ruota invece esplicitamente intorno alla presenza dei fantasmi, Il demone di Maxwell (il Saggiatore, pp. 334, euro 23). Gli spettri che popolano la vita di Thomas Quinn, un giovane scrittore dalla carriera perlomeno incerta, per non dire votata al fallimento, sono quelli del padre, un celebre letterato, e del suo protetto, Andrew Black, noto per aver firmato un libro divenuto rapidamente un best seller. Le voci dei due, scomparsi da tempo, tornano ad accompagnare le giornate del protagonista attraverso ricorrenti messaggi registrati sulla segreteria di casa: segnali inquietanti che annunciano la sua crescente ossessione per l’opera di Black, un giallo psicologico dove, al contrario della sua vita, tutto sembra tornare.

Quel libro, spiega Thomas Quinn, «mi evocava più di tutto l’immagine di un planetario meccanico vittoriano; uno di quei sistemi solari in miniatura con i loro repertori di pianeti e lune d’ottone che ronzano e ticchettano intorno al loro sole brunito con precisione infallibile, matematica. Più di qualsiasi libro avessi mai letto, sembrava una macchina, e per giunta una macchina complessa e splendidamente progettata». Il vero fantasma che lo ossessiona è ancor più di un’ombra che torna dal passato l’impronta imperitura che quest’ultima ha lasciato dietro di sé: un romanzo.

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