Economia

Inps, poveri al lavoro, pensioni da fame: la bomba sociale è innescata

Inps, poveri al lavoro, pensioni da fame: la bomba sociale è innescataIl presidente dell'Inps Pasquale Tridico e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – LaPresse

Il caso Gli effetti delle "riforme" neoliberali del mercato del lavoro e delle pensioni iniziate negli anni Novanta nella relazione annuale del presidente dell'Inps Pasquale Tridico. 4,3 milioni hanno meno di 9 euro lordi l’ora, 1 su 3 guadagna meno di mille euro al mese. La controrivoluzione neoliberale lascia in eredità una bomba sociale. Nessuno intende disinnescarla

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 luglio 2022

Sono oltre 4,3 milioni i lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora e quasi un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese, considerando anche i part-time. Per il presidente dell’Inps Pasquale Tridico che ieri ha presentato la XXI relazione alla Camera alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, guadagnano una cifra mensile lorda inferiore al massimale di 780 euro del cosiddetto «reddito di cittadinanza», stabilito sulla base del reddito mediano. Sembra che percepiscano meno di 5 mila euro all’anno.

La povertà lavorativa è più marcata in Italia che negli altri Stati europei. Secondo Eurostat, nel 2019, l’11,8% dei lavoratori era povero rispetto alla una media europea del 9,2%. Tre anni dopo la situazione è peggiorata. I «lavoratori poveri» sono raddoppiati negli ultimi quindici anni, tra il 2005 e il 2021, corrispondenti alle due grandi crisi che hanno devastato il capitalismo globale: la crisi dei mutui subprime e dei debiti sovrani (2007-2008) e quella della pandemia alla quale si è agganciata quella attuale.

Tridico ha prefigurato il loro percorso nei prossimi trent’anni. Se riuscissero a versare i contributi, e non è affatto detto, e se arrivassero a 65 anni in queste condizioni, allora avrebbero una pensione di circa 750 euro, superiore al corrispettivo della pensione minima attuale pari a 524 euro al mese. Questa è già la realtà delle pensioni italiane, la maggior parte delle quali sono inferiori a mille euro al mese. Tra un paio di decenni ci saranno pensionati ancora più poveri. La simulazione è ottimistica. Per ora riguarda solo i nati tra il 1965 e il 1980. Per chi è nato tra il 1981 e il 2000 andrà peggio.

«Chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani» ha detto Tridico. Le donne sono le più penalizzate. «Sono state le più penalizzate – ha aggiunto il presidente dell’Inps – perché hanno avuto un allungamento della vita lavorativa, per allinearla a quella degli uomini, e stanno andando in pensione più tardi di quanto si aspettassero al momento in cui sono entrate nel mercato».

Non va dimenticato che, tra il 2005 e il 2021, la povertà assoluta è triplicata, arrivando agli attuali 5,6 milioni (dati Inps, Il Manifesto 9 luglio). I due fenomeni compongono la parte emersa di un iceberg che naviga sott’acqua. E presto emergerà, e non solo per il riscaldamento climatico. Ma per gli effetti del combinato disposto delle riforme neoliberali del mercato del lavoro e delle pensioni iniziate dalla metà degli anni Novanta, in Italia e non solo.

La decrescita salariale deriva dalla «parcellizzazione della prestazione lavorativa, anche per effetto della eccessiva flessibilizzazione introdotta dalle riforme sul mercato del lavoro». Non va inoltre trascurato l’impatto della denatalità sul sistema previdenziale. «L’onda dei baby boomers sta arrivando alla pensione – ha detto Tridico – La base contributiva si sta restringendo. Quand’anche le politiche di contrasto alla denatalità risultassero efficaci, i benefici di nuovi contribuenti che entrano nel mercato del lavoro si verificheranno tra 20-25 anni».

Allungamento dell’età pensionabile in cambio della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale; precarizzazione dei rapporti di lavoro fino al punto che oggi il tasso di occupazione (60%) cresce grazie ai contratti di breve e brevissimo termine; blocco sostanziale dei salari da trent’anni. Lo schema è stato accompagnato dall’abbandono di ogni politica industriale a favore delle esternalizzazioni, e dalla crescita di un’economia dei servizi poveri (turismo, ristorazione, digitali e altro).

Questa situazione ha allargato la forbice delle differenze di reddito all’interno del lavoro dipendente. I lavoratori che hanno lavorato di continuo negli ultimi 15 anni hanno salvaguardato la loro posizione: tra questi l’85% ha avuto una crescita relativa del reddito. Ma è solo l’1% dei lavoratori che concentra il 6,4% del reddito totale percepito dal lavoro dipendente. Tra tutti gli altri occupati, la metà più povera ha perso reddito tra il 2005 e 2020. L’indice Gini che calcola le diseguaglianze è salito nel 2021 a 46 dal 44 del 2019. Le diseguaglianze, dunque, non sono solo tra «ricchi» e «poveri», ma all’interno del rapporto di lavoro precario, e non.

Trent’anni di trasformazione postfordista hanno indebolito il contratto nazionale di lavoro, sia per quanto riguarda la tutela del salario (anche chi ha un contratto guadagna pochissimo), sia per la rappresentatività. Per Tridico, ci sono 1.011 contratti: «Troppi, e spesso non rappresentativi». È il problema dei «contratti pirata», ai quali non sembra esserci una soluzione. «Se si introducesse un salario minimo, i profili contributivi si alzerebbero significativamente, in media del 10%» sostiene Tridico.

Prospettiva difficile mentre l’inflazione, che non dipende da una crescita dei salari, è usata per mantenerli bassi. È in questa direzione che va la modesta prospettiva di rivalutazione prospettata in Italia. Dopo la repressione salariale, e in assenza di un significativo ciclo di lotta di classe, non saranno i bonus degli ultimi governi, compreso quello di Draghi, a cambiare la situazione. La controrivoluzione neoliberale lascia in eredità una bomba sociale. Nessuno intende disinnescarla

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