La sete di potere e la fame di poltrone del governo Meloni produce mostri legislativi incontrollabili per lei e la sua maggioranza. Il commissariamento per decreto di Inps e Inail è l’esempio più evidente e, quanto a indecenza, batte perfino quanto che sta accadendo in queste ore in Rai.

A quattro giorni dall’annuncio dopo il consiglio dei ministri, il testo del provvedimento è completamente in alto mare con un susseguirsi di nuove bozze che cambiano in continuazione tramite modifiche profonde sulla nuova governance dei due istituti pubblici che gestiscono più risorse e sui tempi del commissariamento: dai 10 giorni iniziali ora si pensa di passare a 30.

IL COLPO DI MANO deciso da Giorgia Meloni, addirittura in assenza della ministra responsabile Marina Calderone – impegnata a Bruxelles – aveva un obiettivo preciso: «il pesce grosso» risponde al nome di Pasquale Tridico. Solo per ragioni di opportunità si è dunque deciso di accoppiare all’Inps anche il commissariamento dell’Inail. A farne le spese è stato Franco Bettoni, presidente in quota Lega a cui non sono bastate le false rassicurazioni di Matteo Salvini.

La smania di far fuori il professore vicino al M5s e mentore del Reddito di cittadinanza è veramente immotivata. Lo stesso governo aveva chiesto e ha in mano un parere dell’Avvocatura dello stato che ritiene legittimo fissare la scadenza del mandato di Tridico all’Inps al 22 maggio, dunque fra sole due settimane. L’interpretazione considera i tempi a quattro anni dal decreto di nomina da «commissario». Per evitare il rischio di ricorsi, il governo Meloni avrebbe potuto attendere altri due mesi e mezzo: il 7 agosto sarebbero scaduti i 4 anni di mandato da presidente dopo la «nota di specifica del ruolo di presidente» da parte dell’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio.

Per stare ancor più dalla parte dei bottoni, il governo Meloni poteva poi attendere fino al 15 aprile 2024, data in cui scadrà l’intero Cda dell’Inps.

ANCOR PIÙ SCANDALOSA è la motivazione addotta per la modifica della governance. Meloni e gli esponenti della maggioranza hanno parlato direttamente della cancellazione del vicepresidente, considerato inutile. Ma questa figura fu voluta proprio dalla Lega al tempo del governo Conte I, che la impose nel corso dell’iter di approvazione del decreto che nel 2019 modificò la governance dell’Inps. Al tempo la Lega ci piazzò il carneade Adriano Morrone.

Il tandem Tridico-Morrone in realtà partì come «commissario» e «subcommissario», solo in seguito entrambi assurti al ruolo di presidente e vice.

Prima di Morrone la Lega puntava alla presidenza con il nome di Mauro Nori, ex direttore generale ai tempi della ministra Elsa Fornero con cui litigò sulle stime dei 300 mila esodati dalla riforma delle pensioni. Proprio Nori è il nome papabile per la presidenza dell’Inps, ma come nel 2019 rischia di essere superato. Questa volta da Concetta Ferrari, che in passato è stata presidente del consiglio dei sindaci Inps prima di essere chiamata dalla ministra Calderone come sua segretaria generale a via Veneto.

Paradossalmente però lo stesso decreto voluto da Meloni toglie il potere di nomina del direttore generale al ministero del Lavoro e riduce fortemente i poteri dello stesso dg, che non concorre più ai «risultati» dell’ente.

MA LA MISURA CHE RASENTA la follia è l’articolo 5 del decreto, presente anche nell’ultima bozza. Recita così: «Il vice presidente e i componenti del Consiglio di amministrazione in carica alla data di entrata in vigore del presente decreto e cessati ai sensi del comma 2, integrano i componenti del Consiglio di indirizzo e vigilanza fino alla data di scadenza del mandato ad essi originariamente conferito, conservando a tal fine gli emolumenti in godimento, con la qualifica di componenti aggiunti ad esaurimento».

Insomma, pur di dare un contentino ai malcapitati consiglieri di amministrazione, il governo li trasla in toto al Comitato di indirizzo e vigilanza, lasciando loro lo stesso stipendio. In pratica però è come se i «controllati» – i consiglieri di amministrazione – diventassero in momento «controllori» dei loro predecessori. Un unicum nella storia della giurisprudenza.

L’ennesima prova del dilettantismo del governo Meloni.