Innovazione, la Cina in mezzo al guado
Ambienti innovativi La Cina manca di un ambiente e una cultura, al momento, capaci di creare fenomeni e processi creativi. Alcuni esempi però dimostrano la ricerca di una via cinese all'innovazione
Ambienti innovativi La Cina manca di un ambiente e una cultura, al momento, capaci di creare fenomeni e processi creativi. Alcuni esempi però dimostrano la ricerca di una via cinese all'innovazione
Pechino, Fangjia hutong. L’anziano professore inglese racconta dei suoi studi di architettura nella swinging London degli anni Sessanta, quando aveva «la sorella di uno degli Who» come compagna di corso e il suo maestro, Colin Rowe, faceva lezione al bar. Il laowai (straniero ndr) ricorda quando Rowe perse tutti i disegni che lui gli aveva così entusiasticamente e faticosamente sottoposto, parla delle lunghe chiacchiere sui massimi sistemi ascoltando pop e blues e riconosce che fu proprio la passione per i Beach Boys a portarlo infine negli Stati Uniti: «Sì, ho vissuto un’epoca molto stimolante. Sapete, noi non ci pensavamo proprio che lavorare bevendo potesse essere alcolismo».
La lectio magistralis finisce e si parte con il giro di domande dal pubblico. Dopo il primo imbarazzo, si fa avanti una studentessa cinese: «Come è stato possibile che il suo professore perdesse i suoi disegni? Quali band ascoltavate?»
David Grahame Shane, l’anziano professore, un grande dell’architettura mondiale, risponde con benevola gentilezza.
Nelle strampalate domande della ragazza, c’è sia una genuina curiosità, sia una altrettanto genuina incapacità di comprendere l’essenziale: la descrizione di un ambiente “creativo” secondo caratteristiche occidentali. Il punto è che in Cina, forse, bisogna ancora imparare a “pensare”.
È proprio questo il problema, quando si parla di innovazione. Un Paese che da millenni scatena enormi trasformazioni con input che vengono dall’alto, si trova improvvisamente nudo di fronte alla sfida del futuro: creare prodotti ad alto valore aggiunto. Perché l’innovazione non è solo il prodotto di economia di scala, investimenti nella formazione, creazione di mega science park, tutte cose che può ordinare l’imperatore dal suo trono. È soprattutto figlia di un ambiente favorevole alla circolazione delle idee, un proliferare di intuizioni che si diffondono secondo traiettorie orizzontali, non gerarchiche.
La Cina deve affrontare oggi la cosiddetta “trappola del reddito medio”, che si verifica quando un’economia emergente ha ormai superato la fase in cui il basso costo del lavoro favorisce l’alta competitività dell’export, ma non è ancora in grado di produrre merci ad alto valore aggiunto per competere a un livello più elevato: quando, in estrema sintesi, si trova a metà del guado.
Oltre Muraglia, già da qualche anno, due fenomeni paralleli e collegati tra di loro stanno rendendo desueto il vecchio modelle nato dalle riforme e aperture di Deng Xiaoping.
Da un lato, il surplus di manodopera a basso costo sta gradualmente esaurendosi: la trentennale politica del figlio unico ha infatti quasi annullato il “dividendo demografico”, il vantaggio competitivo costituito dal fatto di avere una popolazione numerosa e giovane.
Dall’altro lato, è ormai dal 2008 che i salari stanno crescendo più della produttività del lavoro: i nuovi migranti, giovani alla ricerca di consumi globali, non sono più disposti a lavorare per una ciotola di riso.
Per continuare a crescere, il Dragone deve quindi fare un grande balzo in avanti qualitativo, produrre meno e meglio: non più tonnellate di accendini, bensì merci high tech, capaci di sgomitare nell’immane lotta per la sopravvivenza del capitalismo transnazionale.
È questo per esempio il caso di WeChat (Weixin), l’applicazione per smartphone prodotta da Tencent e simile al nostro WhatsApp, ma più evoluta. In sé riunisce l’instant messenger (per messaggi sia testuali sia vocali), il social network (anche per foto, tipo Instagram), la piattaforma per blog, più varie ed eventuali (gettonatissima, in ottica relazionale, la funzione che ti permette di sapere chi stia usando la stessa applicazione nei paraggi e di contattarlo). Secondo le ultime stime, siamo a 300 milioni e rotti di utenti in Cina e già a 70 milioni in giro per il mondo. Dalle nostre parti, Weixin è sbarcato grazie a uno spot interpretato da Leo Messi.
È, quello di WeChat, un caso notevole: una geniale compenetrazione di invenzioni già esistenti, che le potenzia e rilancia. Ma non siamo ancora alla cosiddetta disruptive innovation, quella che cambia totalmente i paradigmi e trasforma il mondo: il motore a scoppio che manda in pensione la carrozza, il vapore che cancella dai mari la vela, il cd che ammazza il vinile per poi essere fatto fuori dall’Mp3, il personal computer che rende obsoleti i giganteschi cervelli elettronici e lo smartphone che a sua volta rischia di far sparire il personal computer (per farsi un’idea di come slitti costantemente la cosiddetta “brand awareness” anche all’interno dello stesso marchio, un bambino cinese si è avvicinato proprio mentre stavo scrivendo questo articolo e, buttando un occhio all’inconfondibile mela morsicata in bella mostra sul mio portatile, ha esclamato: “iPhone!”).
Qualcuno inventa queste cose, la Cina le copia, le adatta al contesto locale e poi le esporta in grande quantità nelle economie che non possono permettersi l’originale occidentale o giapponese, chiamando il processo “innovazione autonoma”, che si dice zizhu chuangxin (traduzioni alternative: innovazione domestica o innovazione locale).
Tuttavia a volte il Dragone non le copia abbastanza bene, le invenzioni altrui, picchiando la testa contro l’hard ceiling (il duro soffitto) nel suo tentativo di spiccare il volo. In China Fast Forward, Bill Dodson, di cui pubblichiamo un’intervista anche in questo numero, racconta che quando due treni superveloci si scontrarono a Wenzhou nel 2011, facendo quaranta morti e duecento feriti, la Cina stava da settimane magnificando le proprie linee ad alta velocità e firmando accordi per venderle in mezzo mondo: costavano poco e i treni filavano più di quelli della concorrenza.
Tuttavia, le tecnologia giapponese “adattata” in quell’occasione era stata acquisita male e quindi incorporata pessimamente nei sistemi di segnalazione, che andarono in tilt per un temporale. I tecnici cinesi non erano riusciti nel processo di reverse-engineering tipico della zizhu chuangxin.
Lì, la Cina toccò drammaticamente con mano la propria condizione di gigante d’argilla, per quanto riguarda l’innovazione.
Per passare dal made in China al designed in China, il Dragone deve quindi lavorare più sulle condizioni dell’innovazione che sulle singole tecnologie di successo: creare un ecosistema dove le informazioni possano circolare e creare il “nuovo”.
E qui viene il difficile, perché la creazione di questo ambiente favorevole si scontra con un sistema scolastico dove l’autorità vale ancora molto di più della discussione, con uno economico dove la flessibilità della forza lavoro è molto più redditizia dei percorsi professionali approfonditi, con una organizzazione delle imprese gerarchica dove è premiato chi obbedisce e non chi “propone”, con una società tutta dove dove ci sono ancora troppi argomenti mingang, sensibili, che è meglio lasciar perdere.
Tuttavia, in questa fase dello sviluppo cinese, l’innovazione basata sulla rimanipolazione di invenzioni altrui potrebbe anche traghettare verso il futuro.
E qui vale la pena di raccontare un’altra storia.
Nel quartiere di Dashilar, a Pechino, l’architetto Zhang Ke ha appena costruito il “Micro Hutong”, di fatto la ristrutturazione di un vecchio, minuscolo, pingfang (casette sorte dal frazionamento delle vecchie case a corte) per renderlo abitabile da due famiglie. Zhang ha scelto una soluzione composta da cubicoli di legno sovrapposti che creano diverse “camere”. Immediatamente dietro la facciata, che è ricoperta di materiali recuperati nel quartiere, si trova una sala che sarà adibita a spazio pubblico di incontro e di discussione. L’edificio sarà attraversato da un corridoio che metterà in relazione la strada con l’interno della casa a corte.
Il Micro Hutong si inserisce nella ristrutturazione complessiva del quartiere, una centralissima area della vecchia Pechino, dove l’amministrazione sembra aver scelto di sperimentare un diverso modello di sviluppo rispetto a quello dominante, che si basa sulla distruzione e ricostruzione ex novo, con annessa espulsione dei vecchi abitanti.
È un progetto sicuramente innovativo anche se non specificamente rivolto alla competizione internazionale. Tuttavia, creando soluzioni possibili in un’area tra le più densamente abitate del mondo, giovani architetti e designer come Zhang si fanno le ossa per sbarcare all’estero. Non solo. Il “manager” Zhang ha cercato di ricreare anche all’interno del suo studio tutte le condizioni per favorire il famoso ecosistema dell’innovazione.
Standard Architecture è concepito come un incubatore che, in un meccanismo virale, fa nascere altri studi: «per promuovere la cultura del design, la cerchia degli architetti cinesi deve ampliarsi e diventare più diversificata – ci dice Zhang – ci vuole più competizione ad alto livello. Nel Rinascimento c’erano Leonardo, Michelangelo e Raffaello, ma intorno a loro c’era un livello diffuso estremamente alto».
E quindi, lui incoraggia i più talentuosi tra i suoi architetti a mettersi in proprio, creando studi con i quali il suo collaborerà poi in seguito, garantendone così l’autonomia economica.
Lo scopo è quello di ricreare quel clima da “Rinascimento alla Cinese” (Leonardo, Michelangelo, etc), che possa far scivolare lentamente l’architettura fuori dal discorso mainstream, quello dei grandi studi industriali che si prestano alle colate di cemento in tutta la Cina. Sostenere le start-up è fondamentale, perché «i costi stanno salendo molto velocemente e, se non facessimo così, loro entrerebbero nel circuito mainstream. Ma se lavori per dieci anni in quell’ambiente, non ne esci più», conclude Zhang.
Ora, come ha potuto avviare questo processo virtuoso, il giovane architetto? Trovandosi un mecenate, cioè Fu Huijia, fondatore e general manager di Camerich, un mobilificio dalla spiccata vocazione per il design e tutto cinese, sbarcato ormai in tutto il mondo.
Il signor Fu è per Zhang Ke qualcosa di più di uno sponsor: «con lui condividiamo i valori, le idee e il processo creativo; è più di un mecenate, perché anche lui produce design. Ha un team che analizza l’edificio e insieme discutiamo l’intero progetto. Camerich sponsorizza la qualità dei progetti perché hanno valore sociale, anche se non restituiscono profitti immediati».
Ora, bisogna sapere che Camerich ha fatto fortuna proprio applicando la zizhu chuangxin: copia il divano del grande mobilificio italiano e non – da Poltrona Frau a B&B e via dicendo – lo rifà quasi uguale, gli cambia il nome e lo ributta sul mercato a prezzi del tutto accessibili. Grazie all’accumulo di risorse, professionalità e massa critica, adesso produce anche design originale ispirato alla tradizione cinese. Ha già una cinquantina di negozi, aperti prima in Cina, poi nei mercati emergenti e quindi in Europa. Per ingraziarsi gli italiani a cui non sta particolarmente simpatico, il signor Fu ha sponsorizzato una meravigliosa installazione (di Zhang) durante l’ultima Settimana del Mobile di Milano: Village Mountains.
La storia del mobiliere che “si ispira” al design altrui, fa fortuna e poi la reinveste nel creare innovazione “vera” riflette perfettamente come può avvenire, e forse sta già avvenendo, il passaggio dal vecchio al nuovo modello: dalla creazione di ricchezza attraverso la zizhu chuangxin all’investimento nell’ecosistema che produce più pensiero e più creatività.
È un percorso autonomo rispetto a quelli top-down promossi dal governo, con il quale, al limite, si interagisce su singoli aspetti (nel caso appena raccontato, la concessione degli spazi). Ci vuole l’investimento privato e, al momento, la borghesia illuminata secondo caratteristiche cinesi che è la versione contemporanea dei papi rinascimentali, appare un work in progress: “Credo che oggi la situazione sia florida perché sempre più imprenditori rivelano questa sensibilità”, chiude Zhang Ke, con tutto l’ottimismo della Cina che gira intorno.
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