Una riflessione che si inerpica su sentieri impervi per poi lasciarsi andare alla corsa su discese pericolose. L’oggetto da studiare e analizzare è il capitalismo. Le salite faticose riguardano l’assoggettamento sociale (cioè le forme di governo della vita); le discese hanno invece a che fare con l’asservimento macchinico, cioè ai dispositivi sociali e tecnici che definiscono i rapporti sociali esistenti. Chi si inoltra su questo percorso è Maurizio Lazzarato in Segni e macchine (ombre corte, pp. 167, euro 17), scritto dieci anni fa, ma che rivela ancora, nonostante il tempo trascorso, la capacità di mettere a fuoco le invarianti del capitalismo quando è in crisi, che l’autore qualifica come il ripresentarsi sulla scena politica del fascismo e dello Stato nazionale.
C’è una consonante intenzionalità politica con un altro saggio da poco nelle librerie firmato da Stefano Quintarelli per Bollati Boringhieri (Capitalismo immateriale, pp. 198, euro 16). L’intenzionalità politica che li avvicina è quella di denunciare l’illibertà che caratterizza il capitalismo contemporaneo. Ma diverse sono le metodologie, le premesse da cui muovono i due autori. E differenti sono anche gli esiti. Un auspicabile continuum conflitto sociale e governo riformista di Quintarelli; un conflitto radicale e incompatibile con il capitalismo per Lazzarato.
Per Quintarelli la produzione della ricchezza incardinata nelle macchine informatiche costituisce inoltre una evoluzione e generalizzazione di alcune tendenze già presenti nella società industriale (just in time, produzione snella e credito al consumo): una griglia analitica che non sempre aiuta a comprendere come funzionano, per tornare al lessico del libro di Lazzarato, l’assoggettamento sociale e l’asservimento macchinico, cioè il capitalismo nella sua totalità.

CON ORDINE, occorre introdurre delle premesse indispensabili per restituire il contesto dove nasce questo saggio di Lazzarato. Lo scenario è quello della crisi che colpiva, e colpisce, seppur in maniera differente le società nel nord e nel Sud del pianeta. Prendeva così avvio una riflessione che poi troverà agio di svolgimento in due importanti saggi: La fabbrica dell’uomo indebitato e Il governo dell’uomo indebitato, entrambi pubblicati da DeriveApprodi tra il 2011 e il 2013. Si concede la possibilità ai singoli di indebitarsi per acquistare servizi, la formazione (il debito studentesco negli Usa, ad esempio) e beni (la casa), mantenendo inalterato il tenore di vita in presenza di una già realizzata compressione salariale. Il debito svolge così una funzione rilevante nell’assoggettamento sociale. Serve cioè a plasmare le forme di vita. Allo stesso tempo tuttavia svolge anche un indubitabile ruolo nell’asservimento macchinico, dato che è ingranaggio ineliminabile nelle macchine attinenti la produzione di plusvalore (lo sfruttamento marxiano) e la realizzazione del valore, modellando i rapporti di lavoro tanto nel consumo che nella distribuzione. Se ci si è indebitati e lo si fa pur continuando a lavorare è facile che si accettino bassi salari e la precarietà elevata a sistema.

VENGONO CERTO passati al setaccio gli aspetti inerenti il credito al consumo, la finanziarizzazione del welfare state, la cartolarizzazione del debito individuale e dello Stato nazionale, ma ben poco viene detto dall’autore sugli «effetti collaterali» del debito nel funzionamento delle macchine sociali. La fabbrica dell’uomo indebitato è un potente fattore di stabilizzazione e di governance della società. Il debito funziona come variante ormai generalizzata dell’assoggettamento sociale. Più rilevante è semmai il ruolo che ha nell’asservimento macchinico. Lazzarato rimane sulla soglia degli atelier della produzione, rinunciando a svelare come funzioni l’arcano del debito nei rapporti sociali di produzione.
Su questo crinale, Lazzarato si imbatte inoltre in quello che poco più tardi sarà chiamato populismo, mentre sulla scena globale la guerra torna ad essere una forma specifica di governo della società e delle relazioni tra Stati. È proprio qui che si addensano i materiali che compongono Segni e macchine.

L’AUTORE RIPRENDE in mano – ma il sospetto è che non le abbia mai archiviate – le opere di Gilles Deleuze, Felix Guattari e, in misura minore, di Michel Foucault per qualificare la distinzione tra assoggettamento sociale e asservimento macchinico. Sull’assoggettamento sociale, c’è ben poco da dire. È il terreno ampiamente arato dei meccanismi di governo nella produzione di soggettività. Ha cioè a che fare con il Politico. L’assoggettamento sociale ha però bisogno di macchine, di dispositivi, meccanismi, organismi e organizzazioni che danno forma alle relazioni e ai rapporti sociali. La fabbrica, la famiglia, la scuola, la religione, i media sono macchine alle quali uomini e donne sono progressivamente asserviti all’interno di una dinamica, si potrebbe aggiungere, da società del controllo: non c’è necessariamente brutalità nell’asservimento, ma semmai interiorizzazione delle procedure e dinamiche che portano il singolo a diventare ingranaggio di questa o quella macchina (è contemplato il fatto che si possa essere asserviti a più macchine).

IN QUESTA POLARITÀ, oscillazione tra assoggettamento sociale e asservimento macchinico sono fuorvianti le coppie uomo-donna, natura-cultura, cittadino-lavoratore (disoccupato o precario, ma sono solo variazione del caso), indigeno-migrante (quest’ultima coppia non è molto presente nel libro). Il Politico, questa la conclusione di Lazzarato, le rende operanti per favorire l’assoggettamento sociale. Ma quale Politico alternativo immaginare è ancora un nodo che non si riesce a sciogliere.
Ci sono due bersagli polemici in questo libro. La figura neoliberista dell’homo oeconomicus e la teoria del capitalismo cognitivo. Per quanto riguarda il primo aspetto, la presa di distanza è netta: il neoliberismo riduce, impoverendola, la soggettività alla figure dell’«imprenditore di se stesso» o del «capitale umano». Più sfumata la critica rivolta ai teorici del capitalismo cognitivo che assegnano alle macchine il ruolo di deux ex-machina della rivoluzione. Una volta che si apprende e si comprende come funzionano le macchine tecniche, la strada della liberazione è imboccata.
Il cervello è rinchiuso nella nozione di capitale fisso: per una politica della liberazione basta riappropriarsi di esso – e della conoscenza sans phrase messa al lavoro dal capitale. Per Lazzarato questo significa però incamminarsi sulla strada della spoliticizzazione, perché rimuove tanto l’assoggettamento sociale che l’asservimento macchinico presenti nel capitalismo.

C’È INFINE UN ULTIMO spunto polemico da parte dell’autore. Questa volta sono presi di mira Paolo Virno, qualificato come filosofo del performativo assoluto, e Judith Butler, la filosofa che analizza la possibilità di un altro performativo possibile a partire dalla differenza sessuale, considerata un esito «culturale» e non l’espressione di un essenzialismo biologico.
Se le critiche al capitalismo cognitivo colgono alcuni limiti che tali teorie manifestano, d’altronde evidenziati dagli stessi teorici (Carlo Vercellone e Christian Marazzi) come un programma di lavoro in divenire, le accuse a Virno e Butler risultano a chi scrive poco chiare.

VIRNO, AD ESEMPIO, sostiene che il performativo assoluto vada sempre e comunque rapportato, per coglierne la sua potenza esplicativa, alle trasformazioni nella produzione della ricchezza e al radicale ripensamento sia del concetto di lavoro che di produzione, di capitale fisso e capitale variabile. Judith Butler collega invece il performativo alle forme di assoggettamento sociale. L’intento polemico di Maurizio Lazzarato muove dalla rinnovata verticalizzazione del potere e dal conseguente invito a costruire una macchina da guerra del conflitto sociale e di classe. Tema certo non estraneo all’intera opera di Virno e alla stessa Butler, come emerge dal suo saggio L’alleanza dei corpi (Nottetempo).
Sull’invito di Lazzarato non si può essere che d’accordo, ma per fare questo serve comunque giungere alla fine dell’impervia salita di comprensione dell’esistente senza mai rinunciare alle acquisizioni finora conseguite, come l’impossibilità di riprodurre la forma partito tradizionale e una idea di ricomposizione sociale giacobina che altro non farebbe che impoverire il potere dirompente manifestato dal polimorfismo delle molteplici figure del lavoro vivo. Consapevoli che non tutto è fermo e che il nuovo fascismo evocato da Lazzarato forse non è alle porte, ma che i suoi fratelli gemelli populisti e tecnocratici sono già da anni tra noi. E di disastri ne hanno e ne continuano a fare.