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Ingmar Bergman: “Passeggio ancora per le strade di Uppsala”

Ingmar Bergman: “Passeggio ancora per le strade di Uppsala”Harriet Andersson in "Come in uno specchio" di Ingmar Bergman (1961)

Maestri del cinema Suggestioni e riflessioni in occasione della rassegna dedicata al regista al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 febbraio 2018

di Orio Caldiron

Non c’è un altro caso in cui il cortocircuito tra autobiografia e storiografia, tra vocazione d’autore e storia del cinema s’imponga con altrettanta forza come nell’opera di Ingmar Bergman. Spettatore d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e prolungate astinenze, il regista si sintonizza con i film degli altri fino a farli propri, altrettanti momenti della storia della sua vita. La scoperta del cinema risale al paesaggio incantato dell’infanzia in cui il piccolo Ingmar cresce circondato da «fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora», un mondo perduto e sempre ritrovato dove continua a aggirarsi per tutta la vita, rivivendo «luci, odori, persone, fatti, momenti, gesti, toni di voce e oggetti».

Nel cinema degli inizi l’incontro più importante è quello con Victor Sjöström, uno dei pionieri del cinema svedese: «Sjöström era uno dei più grandi registi del suo tempo. Certamente Stiller era un grande regista, ma Sjöström era un genio, un maestro. Il rapporto con Sjöström è stato per me molto importante». Il carretto fantasma (1920), il film-rivelazione a cui resterà legato tutta la vita, lo vede per la prima volta all’inizio degli anni trenta: «Almeno una volta all’anno ho bisogno di vederlo, è uno dei film più belli che ho visto nell’arco della mia vita. Ha influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari». La figura-chiave di Sjöström – che vorrà sul set di Il posto delle fragole (1957) dopo che era stato il consigliere artistico all’epoca del suo esordio di regista – richiama l’attenzione sul ruolo del primo piano: «Sono cresciuto con il cinema muto e, sembra banale a dirsi, ma il muto stava per diventare un’arte, perché l’arte cinematografica faceva vedere la più straordinaria scena di teatro: il volto umano». Non potrebbe essere più profonda la sintonia con il grande Dreyer di La passione di Giovanna d’Arco (1928), il film in cui il primo piano è fondamentale: «Non c’è esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette della poesia».

L’amore per il cinema francese tra le due guerre è per lui una passione clandestina e contrastata: «In quegli anni 1937, 1938 e 1939, sono arrivati i film francesi. La nostra compagnia li detestava. I film di Marcel Carné, Il porto delle nebbie, Alba tragica, sono dei veri capolavori. Devo aver visto il Il bandito della Casbah di Julien Duvivier almeno venticinque volte. Il mio era un amore segreto. Era assolutamente proibito perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare il cinema». Il maestro svedese si è sempre divertito a descrivere il dipartimento sceneggiature della Svensk Filmindustrie, in cui avviene il suo primo apprendistato professionale, come una galera in cui Stina Bergman suona il tamburo e una mezza dozzina di schiavi cerca di trarre sceneggiature da romanzi, novelle e soggetti originali. L’energica direttrice del dipartimento è la vedova dello scrittore Hjalmar Bergman. Con il marito aveva seguito Sjöström nell’avventura americana, imparando a conoscere i meccanismi della drammaturgia hollywoodiana. «Era una drammaturgia cinematografica estremamente didascalica, quasi rigida: il pubblico non avrebbe mai dovuto avere dubbi su dove uno si trovava. Non doveva esserci alcuna incertezza a proposito dei personaggi, e i momenti di passaggio del racconto dovevano essere trattati e sistemati con molta cura. Le fasi culminanti dovevano essere divise e sistemate in punti ben stabiliti della sceneggiatura. L’apogeo doveva essere riservato per la fine. Le battute dovevano essere brevi. Le formulazioni letterarie erano proibite». Certo, quei film francesi erano così diversi da quelli americani. «E io sentivo il metodo francese molto più vicino a me. Se qualcuno mi avesse chiesto il perché, sarei stato incapace di spiegarlo ma, a partire dal momento in cui ho potuto, ho cercato di fare i miei film in stile francese, anche se senza molto successo». Lorens Marmstedt – il produttore che viene in suo aiuto dopo il clamoroso flop dei primi film – gli rimprovera brutalmente l’attaccamento ai suoi idoli francesi: «Devi tener presente che Birger Malmsten non è Jean Gabin e soprattutto che tu non sei Marcel Carné». Negli stessi anni del dopoguerra, il cinema americano sembra ripendersi la rivincita nelle predilezioni del giovane cineasta con la suggestione di un genere come il noir, destinato a rinnovare la drammargia del cinema classico americano: «I registi del noir erano i miei idoli all’epoca. Un regista che ha avuto molta importanza per me è Michael Curtiz. Mi ricordo che con Lars-Erik Kjellgren, eravamo molto amici, andavamo a vedere i film di Curtiz per imparare, rivedevamo lo stesso film anche molte sere di seguito, ed era maledettamente utile. Possedeva il dono di raccontare una storia dall’inizio alla fine in maniera semplice, chiara e ordinata, esattamente come Raoul Walsh».

Negli anni successivi non viene meno la disponibilità a concedersi alla fascinazione hollywoodiana, che gli sembra incarnare perfettamente il meccanismo stesso dello spettacolo cinematografico. Sta a sé un regista come Alfred Hitchcock, che gli sembra per molti aspetti «un personaggio arrogante, sgradevole, cattivo e molto intelligente», di cui non si possono tuttavia misconoscere le grandi qualità di metteur en scène. «È stato un regista magnifico perché ha saputo sperimentare molto, all’interno di un’industria interamente commerciale. Era molto difficile. E se si vede – io posso vederlo e rivederlo – Psyco, quel bizzarro film che amo tanto, è incredibile. Quell’uomo avido l’ha fatto con soldi suoi, una piccola troupe, e una tale logica, una tale precisione, una tale ossessione della qualità cinematografica. Ammiro molto Psyco. E anche Nodo alla gola, tecnicamente parlando non è del tutto riuscito, ma l’idea è assolutamente geniale».

Negli anni settanta, il regista non approva l’atteggiamento polemico che molti assumono nei confronti del cinema hollywoodiano, contestato soprattutto sul piano politico. Il cinema americano gli sembra tuttora incarnare la gioia infantile dello spettacolo, l’esperienza tonificante dell’evasione. «Bisogna stare in guardia soprattutto quando si ha a che fare con cose che vorrebbero essere altro da quelle che sono realmente. Ma John Ford non fa mai niente di tutto ciò, ed è per questo che nella storia del cinema è un grande e onesto figlio di puttana. Si può anche dire che dopo tutto il cinema non è poi così importante, è un bene di consumo, qualcosa che si produce, e alcune pentole vengono bene e altre meno. Ma ripeto: bisogna condannare solo le false pretese, il sedicente patetico, la tragedia simulata – è questo che mi fa vomitare. Perché è veramente un veleno».

Nelle varie occasioni in cui è venuto ricostruendo i tratti essenziali della propria attività creativa, Bergman ha sottolineato con energia il processo di immedesimazione profonda che esiste tra l’autore e i propri film: «La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno, e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà».

Non sorprende che per il maestro svedese il punto d’arrivo del cinema contemporaneo sia Andrej Tarkovskij. «Quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? È un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media». La scoperta di Tarkovskij è considerata uno stimolo in grado di indicare un traguardo possibile, di marcare una soglia dell’espressione cinematografica: «Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Io mi vidi incoraggiato e stimolato: qualcuno era riuscito ad esprimere quello che io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno».

La linea di tendenza è molto netta: «Fellini, Kurosawa, Buñuel si muovono nello stesso modo di Tarkovskij. Antonioni era sulla stessa strada ma cadde sopraffatto dalla propria noiosità». Ma non è meno forte il rischio della maniera: «Amo e ammiro Tarkovskij e penso che sia uno dei più grandi registi. La mia ammirazione per Fellini è sconfinata. Ma mi sembra che Tarkovskij abbia cominciato a fare film alla Tarkovskij e che Fellini negli ultimi tempi abbia fatto alcuni film alla Fellini. Kurosawa non ha mai fatto film alla Kurosawa. Invece non mi è mai piaciuto Buñuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità che potevano essere elevate a una sorta di speciale genialità buñueliana, e così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre ugualmente graditi. Buñuel fece quasi sempre film alla Buñuel. È quindi tempo di guardarsi allo specchio e domandarsi: che cosa è successo veramente? Bergman ha dunque cominciato a fare film alla Bergman?».

La simpatia che ha sempre dimostrato per il cinema francese trova una conferma solo parziale nella Nouvelle Vague, di cui apprezza i primi lavori di Jean-Luc Godard e Jules e Jim (1961) di François Truffaut, ma viene messa poi a dura prova da film come Una storia americana (1966), Due o tre cose che so di lei (1967), La cinese (1967), che considera irritanti. Il giudizio sul New American Cinema è particolarmente caloroso: «Mi piace molto il New American Cinema. Davvero lo apprezzo. È talmente vitale. Se ne fregano loro delle apparenze e del risultato. Sono assolutamente privi del manierismo dei francesi, di tutto ciò che è spumeggiante e fuori dell’ordinario, un po’ ostentato e sterile. Fanno scoppiare freneticamente tutto, altroché. E trovo bella l’irrequietezza, la vitalità e la gioia».

Nei confronti del cinema italiano del dopoguerra non sembra andare oltre un apprezzamento generico, di circostanza. Ammette di aver girato alcuni dei suoi primi film «sotto il forte influsso di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano». Cita più volte Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che considera uno dei suoi film preferiti se non il preferito, ma poi sottolinea pesantemente l’inadeguatezza della recitazione dell’attore non professionista. L’eccezione è, come si sa, Federico Fellini, con cui il maestro svedese ha avuto un lungo, discontinuo, altalenante rapporto personale dalla visita sul set di Fellini Satyricon (1969) all’appuntamento mancato al Lido di Venezia quando Bergman vede da solo E la nave va (1983) in una saletta del Palazzo del Cinema. «Ho una grande ammirazione per Fellini, sento una specie di fraterno contatto con lui, non so esattamente perché. Ci siamo spesso scambiati lettere brevi e confuse. È buffo. Lo amo perché è se stesso, è chi è e ciò che è. Il suo carattere è qualcosa che mi commuove, benché sia profondamente diverso dal mio. Ma lo comprendo benissimo e l’ammiro enormemente. Mi si dice che sia affascinato dai miei film. Provo lo stesso sentimento per i suoi».

Sarebbe sviante ricondurre gli interessi e le scelte dello spettatore Bergman a una precisa influenza stilistica di un cineasta su un altro cineasta: «Non ho subito influenze stilistiche da nessun altro regista. Ma le influenze non sono tanto quelle che derivano dalle implicazioni professionali. La vita tutta intera ci influenza. I cineasti, meno di tutto il resto. Perché io non vedo il mondo come loro. Beninteso, rimango influenzato largamente dai nuovi modi di fare il cinema dove non si bada agli effetti d’illuminazione e dove si possono ottenere efficaci risultati con il minimo d’attrezzatura. In un certo modo si ritorna, così, al cinema delle origini, quando tutto era semplice». Il problema è tutt’altro che marginale se è in grado di ricondurci al centro incandescente dell’opera bergmaniana, alle sue ragioni profonde, radicate nella soggettività dell’autore: «Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna. Un nulla nel nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro quadratini illuminati al secondo, e tra di essi il buio. Quando al tavolo di montaggio esamino la pellicola quadratino per quadratino, la sensazione di magia della mia infanzia mi dà ancora i brividi: là nell’oscurità del guardaroba, girando lentamente la manovella, facevo succedere un quadratino all’altro, osservavo i cambiamenti quasi impercettibili; giravo più veloce un movimento. Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, scintillante, il fruscio della croce di Malta, la mano sulla manovella».

Se qualcuno teme le contraddizioni – che possono essere numerose non solo nella propria opera, ma anche nell’intreccio di percorsi e di atteggiamenti con cui ogni cineasta si incontra con le opere degli altri – l’invito di Bergman a avere fiducia nelle proprie emozioni sottolinea ancora una volta la forza del sogno, il richiamo alle ragioni più segrete dell’io. «Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Se si ha fiducia nelle proprie emozioni, si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre». Nel suo ritiro di Fårö, il maestro svedese ha ripreso in mano fino all’ultimo i film della sua cineteca personale o quelli che il Filminstitutet gli presta, ritrovando il «piacere eterno» della visione, il fascino inesauribile delle ombre che si muovono. «La sedia è comoda, la stanza protetta, si fa buio e la prima tremante immagine compare sulla parete bianca. È silenziosa. Il proiettore ronza piano nella sala di proiezione ben isolata. Le ombre si muovono, si girano verso di me, vogliono che io presti attenzione al loro destino. Sono passati tantissimi anni, ma l’eccitazione è sempre la stessa».

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