Un ritratto come tanti, o meglio come molti altri di quelli scattati da Inge Morath (Graz, Austria 1923 – New York 2002), che però non è proprio «come tutti gli altri» perché inquadra Arthur Miller a Roxbury nel 1963. Lo scrittore e drammaturgo, conosciuto sul set del film Gli spostati che la fotografa aveva sposato in seconde nozze nel 1962 (per lui era il terzo matrimonio dopo quello breve, intenso e tormentato con Marilyn Monroe), non guarda verso l’obiettivo ma è certamente consapevole della sua presenza. Anche in questo caso, come per Doris Lessing, Heinrich Böll, Marilyn Monroe, Alexander Calder, Jean Cocteau, Anaïs Nin, Salman Rushdie, Igor Stravinsky, Pablo Picasso, Saul Steinberg (con e senza maschera) e le altre «celebrity» da lei ritratte tra gli anni ’50 e ’90, il soggetto è colto con naturalezza in un momento di convivialità che si traduce spesso in una disinvolta intimità. «Morath era a suo agio ovunque» – si legge nel profilo biografico della fotografa austriaca, navigando nel sito internet di Magnum Photos (come è noto Inge Morath è stata la prima donna fotoreporter dell’agenzia fotografica fondata nel ’47, membro ufficiale dal ’55, seguita due anni dopo da Eve Arnold) – «Alcuni dei suoi lavori più importanti consistono in ritratti di passanti come di celebrità. Era abile anche nel fotografare luoghi: le sue immagini della casa di Boris Pasternak, della biblioteca di Puskin, della casa di Cechov, della camera da letto di Mao Zedong, degli studi degli artisti e dei cimiteri commemorativi sono permeate dallo spirito di persone invisibili ancora presenti».

Fin dal primo momento due elementi intercettano il suo sguardo nel comporre l’immagine: empatia e attesa. Anche in occasione di questa nuova mostra Inge Morath. Fotografare da Venezia in poi (a cura di Kurt Kaindl e Brigitte Blüml, con Valeria Finocchi), realizzata in occasione del centenario della nascita della fotografa in collaborazione con Direzione regionale Musei Veneto, Fotohof e Suasez, con il patrocinio del Forum Austriaco di Cultura di Milano e la partnership di Horm nelle splendide sale del Museo di Palazzo Grimani a Venezia (fino al 4 giugno) si percepisce quell’attitudine al racconto di una realtà umana e sociale che va oltre «il momento decisivo».

Il confine tra fotografia documentaria e umanista è sottile: Morath vuole capire, conoscere, approfondire la relazione con l’altro. Per farlo intuisce l’immagine, la cerca, la riconosce. Nel 1951 mentre è a Venezia con il primo marito, il giornalista inglese Lionel Birch, questa entusiasta viaggiatrice che aveva il dono di padroneggiare le lingue straniere (anche per questo Robert Capa l’aveva invitata insieme all’amico fotografo Ernst Haas a collaborare con Magnum dove lei iniziò lavorando come editor, traduttrice e ricercatrice) prende in mano la vecchia macchina fotografica Contax e scatta le sue prime immagini di una Venezia invernale.

A Palazzo Grimani è esposto proprio quel foglio di contatto. Kurt Kaindl, co-fondatore del centro di promozione fotografica Fotohof di Salisburgo e co-curatore della mostra, negli anni di conoscenza e frequentazione di Inge Morath, promuovendo la valorizzazione del suo archivio anche attraverso la pubblicazione di vari libri, ha raccolto i suoi ricordi di quella breve, ma illuminante, esperienza. «Come sempre mi limitavo a trascinarmi dietro la macchina fotografica che mia madre mi aveva regalato anni prima, e come sempre non la usavo mai. Era l’autunno del 1951. La luce era bellissima, la pioggia aveva ricoperto ogni cosa come con un vetro. Chiamai Capa e gli proposi di mandare qualcuno a fare delle fotografie. Capa mi fece energicamente notare quanto quell’idea fosse impraticabile e disse: «Perché non fai tu una fotografia?» Così andai in un negozio, comprai una pellicola e mi feci caricare la macchina. Il commesso mi consigliò di non fare fotografie con quel tempo. Ma io la sapevo più lunga: si possono fare fotografie anche con il cattivo tempo – non per niente ero stata a guardarli tutti mentre lo facevano, al lavoro. Sulla confezione della pellicola era scritto qualcosa sul cielo nuvoloso: tempo di esposizione 1/50 con focale 4. Poi guardo l’ora, trovo il punto preciso per la prima fotografia e per aspettare che passino esattamente le persone giuste nel posto giusto. Avevo appena cominciato a premere il pulsante, che all’improvviso mi resi conto che per me quello era il modo perfetto di esprimere ciò che avevo dentro».

Tornerà in laguna nel 1955, quando la rivista L’Œil le commissiona un reportage per illustrare il libro Venice Observed (1956) di Mary McCarthy. L’incarico prevedeva che si fermasse a Venezia per una settimana, invece ci rimase per tre mesi scattando sia in bianco e nero che a colori. Di quest’esperienza personale e professionale, come un lascito prezioso, rimangono circa 80 fotografie in bianco e nero (in parte inedite) che costituiscono il nucleo principale, omogeneo e significativo della mostra Fotografare da Venezia in poi. La lezione di Capa e Cartier-Bresson confluisce nella necessità impellente di documentare una situazione, un momento, un incontro osservandolo da vicino, cercando di entrare nella ritualità quotidiana con uno sguardo sempre partecipativo che colloca le sue fotografie quasi in antitesi con le parole al vetriolo della scrittrice statunitense. In una teca, il libro Venice Observed è aperto nella pagina in cui McCarthy tira in ballo The Stones of Venice di John Ruskin parlando della società veneziana in termini di «commercianti che vivono solo per il guadagno», la cui decadenza risalirebbe al Rinascimento. Diversamente, Inge Morath non giudica. Passeggia per Fondamenta Nuove, si ferma davanti a Santa Maria della Salute o al mercato di Rialto e sull’onda della poetica del Neorealismo e di «una ricerca di verità interiore» fotografa il chiosco di un giornalaio, le merlettaie di Burano mentre ricamano sull’uscio di casa, piazza San Marco invasa da migliaia di piccioni, il gatto nella calle, un paio di scarpe da donna accanto alla fontanella, i panni stesi e le gondole, le bambine scalze che lavano i panni in una tinozza. Con uno chaperon d’eccezione, il pittore Bobo (Roberto) Ferruzzi discendente da una storica famiglia veneziana legata al mondo dell’arte, scopre anche i giardini segreti, la «disinvolta negligenza della nobiltà» e la «precaria bellezza» di una Venezia eternamente ammaliante.