Scuola

«La scuola è diventata un’azienda e noi siamo i prodotti da vendere»

«La scuola è diventata un’azienda e noi siamo i prodotti da vendere»

Il collettivo del convitto Vittorio Emanuele II di Napoli risponde al ministro Bianchi E alla ministra Lamorgese ribattono: «Infiltrati alle manifestazioni? La polizia ha caricato solo studenti»

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 4 febbraio 2022

Nina e Piero sono al quarto anno del liceo classico, frequentano il convitto Vittorio Emanuele II nel centro storico di Napoli. Il ministro Bianchi dice che le classi pollaio non sono un problema: «Siamo in 24 in un’aula piccola – spiegano -, le norme che dovrebbero proteggere dal contagio non possono essere rispettate. Addirittura ci sono aule che chiamiamo le catacombe, al piano terra, non hanno finestre e non è possibile arieggiarle. Non è un’accusa alla scuola, la critica è verso chi dovrebbe investire le risorse pubbliche».

Oggi pomeriggio ci sarà un’assemblea degli studenti a piazza Municipio, lo scorso venerdì erano alla manifestazione a piazza dei Martiri per protestare contro la morte di Lorenzo Perinelli. Anche a Napoli la polizia ha risposto con le cariche. La ministra Lamorgese ha giustificato le forze dell’ordine spiegando che i cortei erano infiltrati: «In piazza c’era un’ampia composizione studentesca. E poi c’erano precari e disoccupati. Eravamo davanti alla sede dell’Unione industriali. Eravamo delusi e molto arrabbiati per quello che è successo a Lorenzo ma la polizia era rabbiosa il triplo. Ci siamo trovati i celerini con caschi, scudi e manganelli. L’aggressività da parte loro è stata tanta. C’erano infiltrati? Sono stati caricati solo gli studenti, la maggior parte 15enni».

Lunedì hanno occupato l’edificio De Sanctis: «L’occupazione l’abbiamo impostata sul modello dell’autogestione che facevamo ogni anno ma con la pandemia questo percorso si è interrotto. Organizziamo incontri per portare avanti una didattica alternativa, parlare di cose come educazione civica, sessuale, ai sentimenti. I corsi sono stati molto seguiti ma dopo tre giorni abbiamo deciso di fermarci, adesso non ci sono le condizioni».

Dell’Alternanza scuola lavoro (poi diventata Pcto) non ne vogliono sapere: «È una vergogna. Siccome frequentiamo un liceo non ci mandano in fabbrica come Lorenzo, facciamo un corso di infografica, che poi significa come vendere un prodotto, come far piacere un prodotto. Non si può scegliere perché la scelta l’ha fatta per noi il consiglio d’istituto ed è un piano triennale. Anche senza l’alternanza, la scuola è stata comunque trasformata in un’azienda: sentiamo parlare solo di bilanci, noi studenti sembriamo un prodotto da vendere alle università o ai datori di lavoro».

Quello che vogliono è semplice: «Vorremmo che fossero curate non solo le competenze ma anche il nostro status di persone, vorremmo lo psicologo a scuola, anche per sedute collettive. E poi vorremmo approfondire le materie del nostro indirizzo, vorremmo vedere un laboratorio di restauro, vorremmo una collaborazione con le università che possa fungere da orientamento. A 17, 18 anni ci parlano di business e nessuno ci connette con l’università. La cosa peggiore è che ci irreggimentano in percorsi preordinati: al liceo ti obbligano a fare esperienze da impiegato. Se frequenti un istituto tecnico vai a fare l’operaio. Una divaricazione di classe fin dall’adolescenza».

Studiare a Napoli significa fare i conti con le disparità territoriali: «Non si investe nell’offerta formativa al Sud poi però ci misurano con i test Invalsi e infine usano i risultati contro di noi, per riaffermare la divisione in scuole di serie A e B. Al Nord sono incentivati a proseguire gli studi mentre qui aumenta la dispersione scolastica».

Draghi dice che la scuola è in presenza: «Alle superiori molti sono stati costretti alla didattica mista, la peggiore. La classe si spacca: se l’iniziale del tuo cognome è tra A e M magari ti salvi ma finisci per stare solo nel tuo gruppo, gli altri stanno a casa e fanno la fine peggiore. Si perde l’idea stessa di classe soprattutto in un liceo come il nostro, dove molti vengono dall’hinterland e non li vedi più. Studiamo in edifici storici bellissimi ma privi di manutenzione, in aule pollaio perché non si vogliono assumere gli insegnanti per sdoppiare le classi, stretti tra il voler stare in presenza e avere paura del contagio».

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