Inferni e fantasmi d’Asia
Mostra “Enfers et fantômes d’Asie” al Musée du quai Branly - Jacques Chirac di Parigi fino al 15 luglio
Mostra “Enfers et fantômes d’Asie” al Musée du quai Branly - Jacques Chirac di Parigi fino al 15 luglio
I fantasmi non muoiono mai. Nell’Asia orientale l’epopea della paura consolidata dalla tradizione orale, passa alla letteratura, al teatro, ai manga e al cinema che le danno una vitalità che arriva fino ai giorni nostri e le assicura un posto di primo piano nel mondo del fantastico. Già nel decimo secolo l’arte ispirata al buddismo cinese racconta come vengono giudicate le anime agli inferi e, due secoli più tardi, i rotoli giapponesi ci rimandano le antiche immagini dei fantasmi affamati. Al di là della sfera religiosa da cui provengono, la loro iconografia entra a far parte della cultura e della superstizione popolare con storie messe in scena sul palcoscenico, nei film e nei fumetti. Non più invisibili, le anime dei demoni e dei dannati si aggirano in mezzo a noi. Spesso il ritorno di un morto ammazzato in maniera violenta o sospetta significa che si fa vivo per vendicarsi del suo assassino, per regolare un debito o per riparare un’ingiustizia. La sua apparizione ci costringe a confrontarci con la nostra parte più oscura.
All’entrata della mostra “Enfers et fantômes d’Asie” al Musée du quai Branly – Jacques Chirac di Parigi fino al 15 luglio, curata da Julien Rousseau e Stéphan du Mesnildot, potrebbe essere affissa l’avvertenza: “Sconsigliato agli impressionabili”. Non per dissuadere i visitatori dall’entrare, ma al contrario per eccitare la loro curiosità e invogliarli a immergersi in un mondo buio dove prendono vita antiche leggende. “Noi orientali, là dove non c’è nulla facciamo sorgere l’ombra e questo crea la bellezza. Da sempre i fantasmi giapponesi non hanno gambe né braccia, mentre quelli occidentali hanno le gambe ma sono trasparenti”, scrive Jun’ichirò Tanizaki nel suo saggio “Elogio dell’ombra”. L’immaginazione orientale inizia dal nero lacca per rendere i fantasmi quasi palpabili, luminosi come il vetro. La mostra vuole preservare questa parte d’ombra propria del patrimonio culturale asiatico. Dalle antiche arti religiose all’industria dello spettacolo, le immagini sepolcrali si sono consolidate, trasformate, radicalizzate. Il percorso documenta l’origine e la rappresentazione delle creature più popolari che errano tra i due mondi, come i riti che gli sono dedicati, mescolando arti sacre e profane con la cultura pop in un insieme di audacia e creatività eccezionali. Le maschere del teatro nô e i personaggi del folklore giapponese come gli yôkaï stanno vicini ai rotoli illustrati e ai mostri-guardiani delle tombe cinesi. È un mondo provvisorio, per le divinità, per gli uomini, per gli animali, e anche per le anime dei dannati che si trovano agli inferi in una specie di purgatorio dove espiano le loro colpe prima di raggiungere il ciclo della reincarnazione. Mentre in India, il paese di nascita del buddismo, non ci sono rappresentazioni dei supplizi infernali né nella pittura né nella scultura, i rotoli del Sutra dei Dieci Re che risalgono al decimo secolo ritrovati a Dunhang in Cina restano le immagini più antiche di visioni infernali e servono come monito per ricordare la severa legge del karma. Nella raffigurazione degli antenati, per rendere benevola la loro presenza tra i vivi, si rappresentano i riti propiziatori che permettono di trasformare i defunti in entità benefiche. Così il fantasma e l’antenato diventano due figure opposte. Il primo è in bilico tra due mondi senza un luogo dove sostare e soffre di non poter raggiungere la sua discendenza. Il secondo protegge la famiglia in un determinato territorio perché incarna il sangue e il suolo, cioè mantiene unita la sua stirpe. La paura dei fantasmi è perciò legata all’importanza che una società attribuisce al culto degli antenati. In un’antica carta funeraria cinese, specie di passaporto per il morto, sotto le scritte rosse in alto, si succedono figure umane in diversi costumi e stele con inscritte le virtù del defunto.
In Giappone la rappresentazione del demone degli inferi (oni), cornuto, vestito di un mantello in pelle di tigre e armato di un randello, s’ispira all’inizio alle pitture cinesi, ma in seguito incarna diversi tipi di minacciose creature della cultura popolare. Quando il Paese conosce un periodo di pace che favorisce il fiorire delle arti e il diffondersi dei divertimenti intorno alla capitale Edo, l’odierna Tokyo, la borghesia si appassiona alle storie fantastiche raccontate dalla letteratura, adattate per il teatro e illustrate nelle stampe. Artisti come Maruyama Ȏkyo e Katsuhika Hokusai creano immagini di fantasmi (yùrei) ispirandosi al teatro kabuki. Come la figura femminile dipinta da Hokusai. Il fantasma raggomitolato su se stesso fluttua nell’aria con la lunga chioma che lo segue come un’onda, da cui spuntano le corte braccia che terminano con mani grifagne e gambe monche, si lancia verso il mondo dei vivi. Anima di un’assassinata che non trova pace, viene per vendicarsi del colpevole e può infestare un luogo, un oggetto, una persona. Viene scacciata solo dopo che sono stati celebrati i riti funebri. In un’altra immagine, il suo viso deformato con un occhio spalancato e uno chiuso, con le mani a artiglio cerca di ghermire un contadino che volge il viso spaventato verso l’orribile visione. La faccia sfigurata del celebre fantasma Oiwa che esce da una lanterna incandescente in una stampa di Hokusai sembra rievocare la vicenda di Sadako, la bambina dai poteri paranormali assassinata, a cui rimanda la maledizione della videocassetta che produce la morte di chi la vede, al centro di “Ring”, il film di Hideo Nakata del 1998, che ha avuto enorme successo in Estremo Oriente e ha rinnovato le regole del cinema del brivido in una serie di sequel, prequel, serial e remake. Utagawa Kuniyoshi, alla metà dell’ottocento, raffigura la Principessa Takiyasha e lo spettro in una grande stampa dove un enorme scheletro bianchissimo sovrasta la piccole figure spaventate sotto di lui e la principessa che sta entrando nella stanza con in mano il rotolo di un’antica leggenda.
In Tailandia, Anupong Chantorn nel 2017 dipinge “Rivali”, un acrilico su tela dai colori forti, gialli, arancioni, neri, in cui due monaci buddisti caduti nell’inferno dopo essersi arricchiti con la vendita di amuleti e tatuaggi, si battono come due mostri affamati cercando di tagliarsi reciprocamente le braccia scheletriche con i lunghi becchi da corvo che gli spuntano al posto delle bocche. Il quadro scatena la censura per vilipendio della religione di stato che si allarga anche ai numerosi film horror della produzione tailandese dove gli spiriti (phi) sono i protagonisti dominanti e convivono nella superstizione diffusa con il buddismo. I numerosi manifesti in mostra e i video sull’argomento raccontano storie di spiriti pericolosi per i vivi. Il fantasma cieco sovrasta enorme, con le orbite sanguinolente e gli occhi in mano, i piccoli mortali spaventati sotto di lui. Ma la più celebre è Nang Nak che muore con il neonato che sta mettendo al mondo, mentre il marito è in guerra. Al suo ritorno, l’uomo la ritrova viva ma non sa quale pericolo rappresenti. Lo spettro predatore è Krasüe un’altra ragazza, che di giorno si nasconde tra i fiori e di notte diventa una cannibale dalle lunghe zanne con cui va a cercarsi il cibo. Quando è al potere la giunta militare appoggiata dagli Usa si diffonde il capitalismo anche nelle zone più povere del paese dove maggiormente alligna la superstizione, si moltiplicano così i parchi di attrazione macabri. Il più celebre è quello creato dal monaco Luang Pho Khom nel sud della provincia di Suphanburi. È un grande complesso statuario all’aperto in cui un altissimo uomo-scheletro con braccia e gambe chilometriche sta a guardia dei dannati che vengono torturati con grandi zampilli di sangue dai demoni infernali.
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