Indonesia, la guerra delle donne
Donne Il caso di Nuril denunciata dal suo molestatore, una nuova legge sta per introdurre la poligamia nella provincia dell'Aceh: in un paese a maggioranza musulmana e tradizionalista la società civile è piena di fermenti coraggiosi e vede battaglie dure ma vitali
Donne Il caso di Nuril denunciata dal suo molestatore, una nuova legge sta per introdurre la poligamia nella provincia dell'Aceh: in un paese a maggioranza musulmana e tradizionalista la società civile è piena di fermenti coraggiosi e vede battaglie dure ma vitali
Baiq Nuril Maknun è un’amministratrice scolastica di Lombok, la capitale della provincia omonima, una delle tante realtà insulari dell’Indonesia. Ma lei e quanto le è successo sono diventati prima un caso nazionale e adesso una vicenda che ha cominciato a diffondersi anche sulla grande stampa internazionale. Nuril sopportava da un pezzo le avance anche molto spinte del suo superiore finché non ha deciso di registrare una delle tante telefonate dove il suo molestatore le diceva frasi oscene. E’ il 2015 e Nuril sopporta le pressioni da ormai due anni. Quando però la registrazione finisce sui social – anche se lei nega di averla diffusa – il suo molestatore la denuncia per diffamazione. E li inizia il suo calvario. Messa in galera per quasi quattro mesi nel 2017, Nuril era poi stata assolta da un tribunale locale che l’avevano giudicata innocente. Ma la pubblica accusa impugna la sentenza che è finita in Cassazione dove i giudici l’hanno invece ritenuta colpevole. Esauriti i gradi di giudizio Nuril dovrebbe ora tornare in carcere per altri due mesi e pagare circa 36mila dollari al suo molestatore, una cifra esorbitante in Indonesia.
Senza darsi per vinta, questa madre di tre figli (cui si trova a dove spiegare perché) si è allora rivolta al neo presidente Joko “Jokowi” Widodo chiedendo la grazia. Jokowi ha accolto la richiesta e dunque ha scritto al parlamento perché esamini una proposta di amnistia, un modo per chiudere il caso. Ma la strada è irta di ostacoli. La proposta di Jokowi è già stata discussa dalla III Commissione della Camera ma l’iter rischia di essere lungo. La vicenda è ormai un caso che travalica i confini dei tribunali e anche quelli geografici. Una lettera firmata da nove gruppi, tra cui la Fondazione indonesiana di assistenza legale con sede a Giacarta ma anche il Forum asiatico per i diritti umani e lo sviluppo la cui sede sta a Bangkok, afferma che la sentenza avrebbe solo “perpetuato la cultura della colpa delle vittime”. Per molti invece Nuril ha torto e basta.
Quello di Nuril per altro – che gode anche della simpatia di politici locali influenti come la ministra Yasonna Hamonangan Laoly (Giustizia e diritti umani) – è un caso che va oltre la battaglia fatta al rigorismo dei giudici da gruppi femministi e di tutela dei diritti umani: sotto tiro c’è infatti anche la controversa legge che regola l’informazione per via tecnologica, varata nel 2008 e considerata liberticida. Specie per le donne.
La legge, dicono i suoi critici, è vaga e lascia alla polizia un’ampia discrezionalità per decidere quali tipi di contenuti in circolazione possano o meno essere considerati diffamatori e indecenti. Dal 2008 in poi la legge ha già fatto molte vittime anche se nel 2016 sono stati ridotti i massimali delle pene (da 12 a 4 anni di prigione): c’è una donna a Bandung imprigionata per cinque mesi nel 2015 dopo che il suo ex marito aveva hackerato il suo account o il caso di un’altra donna incriminata per aver condiviso un post che prendeva in giro il tentativo di un politico di dribblare investigatori anti-corruzione. E ancora, quello che è successo a un musicista, messo in galera per aver dato degli “idioti” in un video a un gruppo di sostenitori di Jokowi.
L’anno scorso – riferisce il South China Morning Post – il Paese ha registrato 292 casi che interessano la legge rispetto ai 140 del 2017: diffamazione e incitamento all’odio sono le accuse più comuni. La Commissione nazionale sulla violenza contro le donne ha rilevato che lo scorso anno sono stati segnalati almeno 97 casi di violenza cibernetica contro le donne rispetto ai i 65 del 2017: casi che vanno dalla diffamazione online alle molestie, dall’hackeraggio alle violazioni della privacy. Spesso inoltre le molestie informatiche non vengono nemmeno denunciate (forse per via della discrezionalità garantita dalla legge alla polizia) anche se si sta diffondendo la coscienza che denunciare è giusto. Internet (oltre il 47 % delle donne lo usa e l’Indonesia è come numero di utenti di Fb il quarto Paese al mondo con 130 milioni di utenti ) è comunque solo una parte del tutto: complessivamente, lo scorso anno sono stati registrati oltre 406mila casi di violenza contro le donne in Indonesia. Erano oltre 348mila nel 2017, sempre secondo i dati della Commissione. Ma, riferisce la Bbc, un terzo delle donne indonesiane ha subito violenze fisiche o sessuali, secondo un sondaggio del governo pubblicato nel 2017.
C’è anche altro a bollire in pentola. Bisogna trasferirsi però nella parte più occidentale e settentrionale dell’arcipelago: nell’Aceh, provincia devastata dallo tsunami del 2004 e nota per una lunga guerriglia separatista (1976-2005) connotata da un forte accento islamista, all’origine dello statuto speciale che già dai tempi di Sukarno era stato garantito alla provincia.
Adesso è in discussione una legge che vorrebbe legalizzare la poligamia, finora regolata non da una legge provinciale ma da una consuetudine abbastanza radicata. L’Indonesia, Paese musulmano ma non islamico radicale, non consente la poligamia poiché la legge nazionale definisce legalmente il matrimonio come l’unione tra due adulti di sesso opposto ma vengono però prese in considerazione norme religiose e tradizionali che magari consentono indirettamente la poligamia specie nelle aree dove è forte l’interpretazione rigorista del Corano, come nell’Aceh (ossia più registrazioni di matrimonio “tradizionale”). Il paradosso è che i fautori della legge sulla poligamia (che consentirebbe sino a quattro mogli) la difendono sostenendo che è innovativa e pensata a protezione proprio delle donne. Un modo, dicono, per render illegali i cosiddetti matrimoni nikah siri (ossia quelli che soddisfano i requisiti religiosi ma non sono legalmente riconosciuti né registrati). I matrimoni nikah siri, che sono normalmente condotti in semi segreto, sono un fenomeno pare abbastanza comune. Uno studio del 2012 condotto in 111 villaggi in 17 province dal programma Empowerment of Female Heads of Households (Pekka) ha scoperto che un abitante su quattro del villaggio era vincolato da un matrimonio non registrato.
“Dal punto di vista dell’islam – scriveva il Jakarta Post in un editoriale – (il matrimonio nikah siri) è lecito grazie alla presenza del penghulu (persona in grado di officiarlo), sebbene non autorizzata dal ministero degli Affari religiosi” e nel contempo “la legge sul matrimonio del 1974 stabilisce che un matrimonio è legittimo se soddisfa le formalità religiose e viene registrato”. Su questa “ambivalenza” condotta sul confine sottile tra diritto dello Stato, religione e pratiche tradizionali, registrazione o meno, si gioca una partita sulla pelle delle donne anche se in molti comprenderebbero “le conseguenze legali e sociali del matrimonio non ufficiale, inclusa l’assenza di diritto da parte della moglie e dei figli sull’eredità o sui documenti ufficiali”. Lo Stato però, che pure bolla il nikah siri come illegale “non riesce a vietarlo esplicitamente o a criminalizzare chiunque lo pratichi”. Una bella confusione insomma. Confusione, avvisava l’editorialista, peggiorata da che “il Consiglio Ulema indonesiano (Mui) ha emesso una fatwa nel 2006, in cui si afferma che il matrimonio non registrato è halal (consentito dalla legge islamica), purché soddisfi tutti i requisiti stabiliti dalla sharia”.
La legge sulla poligamia questa volta ha però suscitato un tale vespaio da poter essere considerata non solo un campanello d’allarme sui diritti delle donne ma anche il segno di una società civile che, dal basso, reagisce e pone la questione in termini pubblici impedendo, come avveniva in passato, che le norme più oscurantiste passino quasi inosservate e imposte dall’altro.
Fragranti e blasfeme
All’inizio fu Sastra Wangi o “letteratura fragrante”, un fenomeno che, alla vigilia della caduta della trentennale dittatura di Suharto, doveva sconvolgere il panorama culturale indonesiano. Quel fenomeno, incarnato soprattutto da Ayu Utami con Saman, era destinato a scuotere una letteratura per forza dormiente in un Paese – l’Indonesia – raccontato solo dalle pagine di scrittori soprattutto occidentali spesso non in grado di cogliere il fermento che stava maturando sotto la spessa coltre che il dittatore aveva steso su ogni forma di protesta. Il mondo si accorse allora che anche laggiù esistevano donne e che non erano solo danzatrici, cuoche o cameriere, inevitabilmente madri altrettanto inevitabilmente sottomesse. Ayu venne tradotta in italiano nel 2010 da Metropoli d’Asia, una casa editrice che segnava il risveglio della curiosità occidentale per le letterature asiatiche urbane e che voleva scoprire nuovi autori locali. Ayu denunciava i lati oscuri della società e al contempo raccontava la sessualità, argomenti tabù in quel mondo chiuso dove tutto era regolato dall’Orde Baru, il Nuovo Ordine introdotto dopo il colpo di stato del 1965, costato centinaia di migliaia di morti e una censura che non aveva risparmiato Pramoedya Ananta Tour, il vecchio scrittore imprigionato nell’isola lager di Buru. Nome che – in quegli anni – segnava il parto interrotto di una letteratura in attesa di liberazione (in Italia pubblicato da Il Saggiatore).
Sastra Wangi – un marchio che alcune scrittrici rifiutarono ma che alla fine fu il brand del primo movimento letterario femminile dell’epoca post dittatoriale della Reformasi – doveva aprire la porta a un flusso da allora ininterrotto: scrittrici ma anche registe, autrici ma anche attiviste, pensiero ma anche azione. Oggi quel movimento è ancora un fiume in piena nonostante il tentativo di farne solo un episodio carsico. Feby Indirani ne è forse uno degli esempi più potenti. “Non è mica la Vergine Maria” (da poco uscito per Add, una casa editrice che sta creando un catalogo davvero interessante per gli amanti dell’Asia) non è un titolo acchiappa gonzi inventato per il pubblico europeo in cerca di riedizioni del kamasutra o incuriosito da richiami blasfermo-erotici. E’ il titolo che Feby ha scelto in originale perché Maryam è anche un personaggio dell’islam. E là, non diversamente da come accadrebbe qui se una scrittrice italiana citasse la verginità della madonna nel titolo di un romanzo, quella scelta non è certo passata inosservata. Il libro è blasfemo intenzionalmente e il doppio registro – se dunque scambiate la parola islam con cristianesimo – consente a Feby di parlare a un pubblico tanto vasto quanto lo è quello delle religioni del libro. In Indonesia il percorso è stato difficile come lo era stato all’inizio per Ayu Utami. Rifiuti e magari anche minacce. Paure, ritrosie, consigli forse di moderare almeno un po… Si può scrivere di una donna che resta in cinta senza aver avuto rapporti? E si può raccontare di una maialina che vorrebbe convertirsi all’islam per guadagnarsi il paradiso? E ancora, è possibile racontare che c’è chi vorrebbe ammazzare il muezzin per via di tutto quel chiasso durante la preghiera? Feby è talmente blasfema che riesce difficile credere che sia una buona musulmana – come si dichiara – e che, pur senza eccessive prostrazioni, si china per pregare e magari osserva anche il precetto del digiuno.
Il libri di Feby – che esprime un desiderio di liberazione non solo femminile dalle maglie troppo strette dell’osservanza – è una lezione soprattutto per chi continua ad agitare la bandiera di un islam irriformabile. La scrittrice dell’ “islamismo magico”, come Feby ama chiamare il suo stile (pur se molti racconti sono ispirati da fatti reali), diventa il paradigma di un Paese dove – sorpresa! – la società civile si muove, oltrepassa, sfida. E al contempo richiama una tradizione letteraria locale che ha sempre fatto dell’ironia il veicolo per comunicare la rivoluzione del costume. Il merito di questa scoperta – che esce in Italia a soli due anni dalla pubblicazione in Indonesia – si deve anche ad Antonia Soriente che già aveva tradotto Ayutami. Questa volta la docente dell’Orientale di Napoli ha scelto di tradurre Feby con l’aiuto dei suoi allievi di indonesiano: una scelta collettiva che è un piccolo strappo alle regole della gelosia letteraria e che – anche questo – è un segno dei tempi. “Feby Indirani – scrive Soriente della postfazione – è convinta che scrivere racconti invece di saggi può cambiare il modo di vedere la religione e portare il lettore a non considerala sempre in maniera cupa e seria”. Una lezione per gli indonesiani bacchettoni ma anche per quelli di casa nostra che non oserebbero mai pronunciare il nome di Dio invano.
Tutte le grane del riformatore
Non sappiamo se Joko Widodo detto “Jokowi”, al suo secondo mandato come presidente del Paese musulmano più popoloso del pianeta, abbia letto Feby Indirani, ma la scelta di aver chiesto l’amnistia nel caso di Baiq Nuril Maknun è chiaramente un gesto che è stato apprezzato da molti e soprattutto da molte. Jokowi un problema con l’islam radicale ce l’ha eccome. Il suo maggior rivale politico, il generale Prabowo Subianto che in prime nozze si era sposato con una figlia del dittatore Suharto e che rappresenta l’ala conservatrice, xenofoba e tradizionalista del Paese, la carta dell’islam se l’è giocata a piene mani nella tornata elettorale del 17 aprile scorso: tornata da cui è uscito perdente ma con la consolazione di aver raggranellato il 44,5% dei 154 milioni di voti validi contro il 55,5% di Jokowi che, incalzato dagli strali di Prabowo e dai gruppetti islomoradicali che gli fanno da corte e che non considerano Joko Widodo un bravo musulmano, ha dovuto correre ai ripari. Visto che Prabowo era riuscito a farsi appoggiare seppur indirettamente dalla Muhammadiyah, un’organizzazione islamica che vanta 50 milioni di aderenti, Jokowi si è presentato in ticket con Maruf Amin, a capo del Consiglio degli Ulema e già uomo di vertice della Nahdlatul Ulama (Nu), organizzazione islamica che di milioni di membri ne vanterebbe addirittura novanta (numeri forse da prendere con le molle). Il campione dei riformatori laici – anche come tale Jokowi era stato eletto al primo mandato – ha fatto la sua proverbiale capriola islamica anche se la Nu – considerata una forza tradizionalista – ha in realtà una vocazione progressista mentre Muhammadiya – che si dichiara “modernista” – è assai più osservante e per molti versi conservatrice. In poche parole, senza la mezzaluna i conti non si possono fare. E’ una storia antica.
Benché l’islam indonesiano sia un fenomeno eminentemente commerciale, arrivato sulla punta delle feluche o non su quella della spada, l’identità religiosa è stata spesso brandita, seppur per nobili cause come la lotta al colonialismo, per motivi politici. Del resto l’islam questo è e cioè un credo che non fa distinzione tra cittadino e credente. E non si può esser bravi cittadini se non si è dei bravi credenti e viceversa. Ma proprio per questa sua storia particolare, disperso nelle mille realtà insulari, contaminato dall’animismo e da pratiche esoteriche autoctone con bizzarre forme di sincretismo, l’islam indonesiano ha una sua specificità che lo rende un unicum: tollerante ma a tratti anche ferocemente rigorista. Nazionalista e identitario ma anche ecumenico e aperto. All’indomani della liberazione da tre secoli di dominio olandese, ci fu una battaglia perché la Costituzione della nuova repubblica riconoscesse l’islam come religione di Stato. I rigoristi però persero la battaglia e alla fine accettarono le regole dei Cinque pilastri (Pancasila) dove si certificava la libertà religiosa ma si cedeva agli islamisti almeno su un punto: in Indonesia puoi essere ciò che vuoi salvo ateo. Devi credere, punto.
Questo forse spiega almeno in parte – tra lo stupore di chi ignora questa suadente specificità – perché una Feby Indirani possa scrivere quel che scrive senza per questo rinnegare la fede della sua gente. E spiega anche perché questa battaglia mai sopita tra rigoristi e liberali, progressisti e conservatori, militari e civili si tinga spesso del colore verde caro ai fedeli del profeta. Spiega anche perché Jokowi abbia scelto – se vogliamo parlare italiano – un democristiano (di sinistra) al suo fianco. Categorie che noi possiamo comprendere meglio di altri: “figliuolo, se sei un buon cristiano sarai anche un buon cittadino. L’importante è che non mi voti falce e martello”. Sarà per questo forse che persino la lingua degli indonesiani ci riesce facile da imparare. Guarda un po’ che la chiamano l’italiano d’Oriente.
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