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Indisponibili all’austerità

Indisponibili all’austeritàUomini e donne im marcia – Reuters

"ESSERE DI SINISTRA OGGI", UN SAGGIO DI ALEX FOTI Dopo la mappa dei gruppi libertari in Europa, lo studioso e attivista milanese invita a prendere congedo dalla cultura politica della sinistra per proporre un'alternativa al modello neoliberista del capitalismo

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 26 marzo 2013

Ormai da qualche decennio a sinistra si parla di uscire dal Novecento. Le soluzioni prospettate, però, appaiono sempre novecentesche, se non addirittura ottocentesche, con il ritorno in auge di liberalismi e moderatismi di vario conio. Dal Novecento sembra che si possa uscire solo da destra. Alex Foti, da qualche anno prova a vedere se lo si possa fare da sinistra, agendo come militante, da san Precario in avanti, animatore culturale e pamphlettista. Lo avevamo lasciato qualche anno fa con Anarchy in Eu (Agenzia X), una cromografia, con tanto di stick fluorescenti, dei movimenti che si agitavano nella prima decade del nuovo millennio. Lo ritroviamo con il recente Essere di sinistra oggi (il Saggiatore, pp. 130, euro 14), in cui focalizza alcuni punti fermi sui quali costruire una rinnovata politica di sinistra dopo la catastrofe delle forme organizzative e delle prospettive legate alla storia del movimento operaio.

Riesce difficile interrogarsi sul senso, e il futuro, dell’essere di sinistra prescindendo dagli esiti dell’ultima tornata elettorale. In sintesi, nel momento in cui si manifesta nel paese un rifiuto maggioritario nei confronti delle politiche di austerità, nessun soggetto politico di sinistra sembra in grado di capitalizzare il diffuso rigetto nei confronti di banche e finanza nonché l’assunzione da parte del tema del lavoro e del reddito di una, pur confusa, centralità nel dibattito politico, che ha relegato sullo sfondo rom, microcriminalità e allarmi sicurezza vari.

Sempre fuori cornice

Anche proposte genericamente di sinistra, quali la tutela dei beni e dei servizi pubblici, la rinegoziazione del debito o, addirittura, il reddito di cittadinanza, termine con il quale però nel dibattito nostrano si intende una qualche forma di sussidio di disoccupazione, sembrano acquisire credibilità presso una platea elettorale più ampia solo collocandosi in una cornice né di destra né di sinistra.

Questo, in fondo, il segreto del successo dei 5 stelle, unito al discredito della «casta», epifania locale di una crisi di legittimità delle forme tipiche democrazia rappresentativa, cui si dà il nome di antipolitica, che si manifesta anche ad altre latitudini. In fondo, si potrebbe fornire una lettura di tali esiti tutta interna alla storia delle sinistre che in questi anni si sono succedute nell’agone politico, delle loro burocrazie, dei loro riti stantii, delle loro poco edificanti esperienze di governo. O magari chiamare in causa, l’equivoco del Pd, partito eternamente intento a rinnovare l’orizzonte del compromesso storico o a transitare, oltre tempo massimo, verso i lidi di una socialdemocrazia altrove in crisi di identità e progetto, il cui afasico leader in campagna elettorale non ha trovato nulla di meglio di prendersela ossessivamente con un non meglio precisato «populismo», assurto a categoria dello spirito chiamata a nominare un negativo contro il quale giocare la carta della «responsabilità».

Se il panorama della sinistra istituzionale italiana è desolante, fuori luogo appare ogni eccessivo entusiasmo movimentista, che dai fallimenti altrui si limita a trarre slancio, in negativo, per la riaffermazione acritica delle proprie identità. Certo, in questi anni sul versante dei movimenti e delle esperienze di base non sono mancati momenti di innovazione teorica e pratica che tuttavia hanno manifestato una tendenza all’impasse quando dovevano tradursi in una proposta politica capace di incidere sul reale, di produrre vertenzialità, di spostare equilibri, di influenzare l’agenda della politica istituzionale.

A fronte di tale scenario, in cui ogni trionfalismo appare fuori luogo, il libro di Foti pone il problema della ricostruzione di una cornice di sinistra in grado di catalizzare le forze del cambiamento. La scommessa è che quella topologia possa risultare ancora utile e mobilitante, a patto di ricentrarla in riferimento al nuovo millennio. Il primo passaggio proposto è una resa dei conti con la tradizione novecentesca, le mitologie del comunismo, i perduranti schemi da Guerra fredda che continuano ad agire meccanicamente, come una sorta di inconscio politico, l’antimperialismo riconvertito in un antioccidentalismo e antiamericanismo del tutto inconsapevole delle dinamiche di redistribuzione del potere avvenute a livello globale. Le parole d’ordine agitate sono quelle della triade capitolina della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità, declinate però a partire dalle sensibilità queer, femminista, controculturale ed ecologista. Scendendo più a fondo, si coglie nel volume di Foti un tentativo di rilanciare una prospettiva universalista in cui la rivendicazione del pluralismo non si risolve nell’irregimentazione olistica del multiculturalismo. In tal senso, si potrebbe rilevare come gli eccessi culturalisti abbiano profondamente contribuito al disarmo della sinistra. Il riferimento non è solo alle derive identitarie del campus radicalism americano. In fondo, anche alle nostre latitudini, un misto di gusto per l’esotico, terzomondismo arcaico e relativismo a senso unico troppo spesso conduce all’adozione di doppi standard, opposti e speculari rispetto all’opinione mainstream occidentalista.

Campo di verifica di una possibile nuova sinistra è la lotta contro l’austerity. L’autore sottolinea l’importanza dell’articolazione di livelli plurimi di azione politica, in cui il protagonismo dei movimenti, reale motore di ogni possibile trasformazione, deve trovare le vie di una traducibilità, anche in termini di politica istituzionale. Per non ripetere le esperienze deludenti di questi ultimi decenni, tuttavia, le istanze di lotta devono porsi il problema di trovare modalità di interlocuzione/pressione con le forme della rappresentanza che non passino per la semplice delega al politico amico o il ruolo di comitato elettorale, mentre, sull’altro versante, si può auspicare che i soggetti impegnati nelle arene istituzionali si dimostrino in grado di relativizzare la loro posizione, di aprirsi a istanze partecipative, di superare la subalternità violando i numerosi tabu, in primis il feticcio della legalità, che hanno ingabbiato la sinistra in una concezione mutila e aconflittuale dell’agire politico.

Il grande equivoco

Detto ciò, molte altre questioni restano aperte. In primo luogo, si potrebbe evidenziare come il ciclo di mobilitazioni che da Piazza Tahrir conduce a Occupy, passando per gli indignados o la Grecia, se da una parte ha operato efficacemente come potere destituente, dall’altra ha palesato una quasi completa incapacità nel porsi su un terreno costituente. Il risultato è stato che, una volta cacciato il tiranno di turno o delegittimata una determinata élite partitica, si è aperto un vuoto rapidamente occupato dagli attori inerzialmente meglio posizionati per colmarlo, fossero i fratelli musulmani o un partito popolare qualsiasi. A questo punto, è lecito chiedersi se i luoghi su cui si è esercitato con successo il potere destituente non fossero entità già destituite, dotate di scarsi spazi di agibilità politica, il cui campo di possibilità era di fatto stabilito altrove, dai diktat dei mitici mercati o da altri soggetti transnazionali. Se a dettare legge sono ordinamenti parziali su scala globale, quali i sistemi finanziari, è su quel terreno che si deve interferire, agendo sui medium intorno ai quali quegli stessi sistemi sono organizzati. In proposito, non ci si può accontentare del piano simbolico, promuovendo mobilitazioni intorno alle sedi del potere economico anziché a quelle della politica. La resistenza non basta. E allora forse si deve iniziare a pensare, e praticare, controcondotte in grado di agire sui medium dei sistemi parziali, per esempio sulla moneta o lo spazio.

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