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Indignati e pronti alla rivolta

Indignati e pronti alla rivoltaManifestazione a New York – Reuters

Stati Uniti Manifestazioni e blocchi stradali in molte città dopo l'assoluzione del viglilante accusato di aver ucciso il giovane afroamericano Trayvon Martin. La polizia in allarme: teme il ripetersi dei riot del 1991

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 16 luglio 2013
Luca CeladaLos Angeles

L’assoluzione di George Zimmerman per l’uccisione di Trayvon Martin ha scatenato proteste in tutta America. Manifestazioni sono state convocate a Chicago, Oakland e San Francisco. A New York un corteo ha sfilato da Union Square a Times Square mescolandosi ai turisti. A Los Angeles le parrocchie delle chiese battiste del quartiere nero hanno invitato i fedeli a partecipare alla messa indossando felpe col cappuccio in simbolica solidarietà con Martin che ne indossava una simile quando è stato freddato dalla pistola di Zimmerman a Sanford, in Florida. Nel pomeriggio sono state convocate proteste negli storici quartieri afroamericani di Inglewood e South Central, dove ben presto è sembrato di rivivere i postumi del verdetto Rodeny King di vent’anni fa. I presidi dei manifestanti sono debordati nelle strade e hanno bloccato Crenshaw Boulevard, il principale viale del quartiere per poi occupare la Santa Monica Freeway, paralizzando per mezz’ora il traffico di una delle principali arterie autostradali che attraversano la città. Un’azione che ha provocato «l’allarme tattico» che il Los Angeles Police Department (Lapd) lancia in caso di manifestazioni «ad alto rischio» di disordini. In alcuni casi, agenti del Lapd hanno sparato proiettili di gomma per disperdere i manifestanti, che hanno però proseguito le azioni di disturbo fino a tarda notte, durante la quale si sono registrati numerosi arresti.

È la misura della rabbia e dell’esasperazione di una comunità per cui il caso Martin è diventato l’ultimo emblematico simbolo della discriminazione ancora vigente nei loro confronti. Nel caso della Florida la provocazione e l’omicidio di un minorenne disarmato da parte di un mitomane vigilante sono stati aggravati dalle leggi sull’«autodifesa» e un culto delle armi da fuoco codificato nell’ordinamento giuridico.

Per ricapitolare i fatti del caso: una guardia giurata «volontaria» in ronda di sicurezza in un sobborgo della Florida vede un minorenne nero che si aggira con «fare sospetto». In realtà Trayvon Martin, 17enne, sta tornando verso casa facendosi i fatti suoi. Ma George Zimmerman è sicuro che il ragazzo nasconde qualcosa incappucciato in quella felpa; l’aspirante sceriffo chiama la polizia per segnalarlo. Ricevuta la descrizione, l’agente al telefono dice esplicitamente a Zimmerman di lasciar perdere, eventualmente farà controllare ad una volante. Zimmermann non ci sta, borbotta qualcosa su «questi che la fanno sempre franca». Attaccato il telefono controlla la pistola e si mette a seguire il teenager. Qualche istante più tardi, dopo una colluttazione, parte un colpo e Trayvvon giace a terra in una pozza di sangue. Il caso fa subito scalpore nazionale quando la polizia rifiuta inizialmente di arrestare il giustiziere in base alla sua dichiarazione che «temeva per la propria vita», applicando lo statuto del «stand your ground» che prevede il diritto dei cittadini della Florida a difendere il «proprio spazio», anche con le armi se necessario, qualora si sentano minacciati, le autorità considerano sufficienti le dichiarazioni di Zimmerman per chiudere le indagini.

Sarà solo l’indignazione nazionale, l’interessamento di leader dei diritti civili e di esponenti politici, compreso il presidente Barack Obama, a indurre all’arresto del vigilante. Il verdetto di sabato è stato reso da una giuria che era stata istruita di assolvere se fosse sussistito un «ragionevole dubbio» che Zimmerman avesse agito per autodifesa. Sono così rimasti esclusi dal processo i prodromi dell’accaduto, il fatto che Zimmerman ha chiaramente innescato l’episodio affrontando il ragazzo disarmato, il lecito sospetto di pregiudizio razziale, insomma tutto il contesto che inchioda Zimmerman alla responsabilità per l’accaduto, così evidente a qualunque osservatore imparziale. Ristretto dalla legge della Florida solo agli ultimi istanti della colluttazione, il giudizio, basato sulla testimonianza dell’unico sopravvissuto, ha dovuto contemplare la possibilità che in quel momento Zimmerman avrebbe potuto «sentirsi minacciato a sufficienza» per fare fuoco.

Al di là dei cavilli giudiziari che hanno accompagnato il processo, la reazione di ieri dimostra come sia l’ennesimo caso che conferma l’assurda pregiudiziale contro i neri e a favore delle armi da fuoco vigente in una cultura ammantata di giustizialismo e alimentata da un razzismo antico e indifferente ai pur numerosi progressi sociali. Un flusso sotterraneo che si coagula soprattutto negli stati ex- sudisti dove l’ineguaglianza delle razze è avvallata da statuti che assicurano numeri straordinariamente sproporzionati di detenuti neri nelle prigioni (e nei bracci della morte). Così in uno stato retrogrado e reazionario come la Florida il caso di Martin ha ancora una volta palesato agli occhi di milioni di afroamericani i due pesi e le due misure che svalutano il valore della vita dei loro figli rispetto a quello di altri giovani. Un caso cioè che ha evocato quelle migliaia di simili episodi che hanno scandito l’esperienza dei neri in America, le violenze «paradigmatiche» che uniscono la vergogna sepolta dei linciaggi nel Sud ai Medgar Evers e ai Rodney King e che occasionalmente hanno prodotto le convulsioni che hanno forzato la mano del governo federale, costretto ad intervenire per rettificare gli «errori» giudiziari dei singoli stati, come nel caso di poliziotti che pestarono Rodney King, assolti dai colleghi ma condannati per violazione di diritti civili dalle corti federali. La formalizzazione di un nuovo processo in questo senso anche per George Zimmerman è stato ufficialmente auspicato ieri da associazioni come l’Naacp e l’Aclu.

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