Cultura

Indigeni da punire perché inadatti allo stile di vita «europeo»

Indigeni da punire perché inadatti allo stile di vita «europeo»

Scaffale «Trofei e prigionieri. Una foto ricordo della colonizzazione in Brasile» di Piero Brunello, per Cierre

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 11 agosto 2020

Un quarto di secolo ci separa ormai dalla pubblicazione dell’importante studio di Piero Brunello Pionieri (Donzelli, 1994): non più disponibile in commercio, meriterebbe una riedizione. Dedicato all’emigrazione italiana in Brasile nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento, il libro riconsiderava criticamente il «mito della frontiera» e del colono-pioniere. Era frutto di accurate ricerche condotte nel corso degli anni Ottanta, quando si andavano avviando processi che ora vediamo pienamente dispiegati.

IL RILANCIO DELL’IDEOLOGIA nazionalistica, anche in chiave etno-regionale, trovava terreno fertile in una rappresentazione diffusa dell’emigrazione italiana: partiti a milioni perché poveri, sfruttati all’estremo nei paesi di destinazione, gli italiani erano stati indefessi e onesti lavoratori. Questo modo di leggere l’emigrazione aveva profonde radici, ma ha conosciuto, nonostante le critiche da parte di studiosi e giornalisti, un largo rilancio in contrapposizione alle nuove emigrazioni che, dalla fine del secolo scorso, hanno avuto come destinazione l’Italia: spesso il nazionalismo conduce al razzismo, per molte vie.
Il libro di Brunello si interrogava sulle reali pratiche degli emigranti veneti in Brasile, anch’essi da tempo celebrati da un’epica miserabilista, subito sfruttata dal primo leghismo.
Passato al vaglio della documentazione storica, l’eroismo della «colonizzazione» della frontiera – cioè dell’insediamento delle famiglie immigrate per trasformare in campi coltivati le terre concesse dal governo, introducendo la proprietà privata e distruggendo la foresta, rivelava aspetti sottaciuti e inquietanti. Lo scontro con gli indigeni che vivevano di caccia e raccolta e per i quali la foresta era ambiente di vita e risorsa vitale fu costellato da veri e propri massacri. Squadre di coloni armati distrussero villaggi, uccidendo gran parte della popolazione e catturando donne e bambini superstiti.

SE LE VIOLENZE furono blandamente condannate dai missionari operanti nelle stesse zone, i rapimenti andavano nella loro medesima direzione: «civilizzare» gli indigeni cristianizzandoli, introducendoli al lavoro agricolo salariato ed educandoli alla subordinazione agli europei, negando così per altra via la loro forma di vita, messa violentemente in discussione dall’arrivo dei coloni italiani.
Da un dettaglio di Pionieri, cruciale perché era l’immagine che apriva il volume ed era commentata nei primi paragrafi dell’introduzione, sono riprese le ricerche confluite nel nuovo libro di Piero Brunello, Trofei e prigionieri. Una foto ricordo della colonizzazione in Brasile (Cierre, pp.160, euro 14). Si tratta della foto-ricordo di una delle molte battute punitive contro gli indigeni che rifiutavano di adottare gli stili di vita degli europei, cercando di arginarne l’espansione. Da più parti si è avanzata l’idea che quella foto sia in realtà un fotomontaggio, documento di una cultura che legittimava la violenza, ma non delle pratiche dei coloni.

POTRÀ SEMBRARE una distinzione di poco conto, eppure il problema per chi legge, studia e scrive la storia è centrale. Infatti la giusta critica alle ingenuità «positiviste» (i documenti sarebbero trasparenti, dunque basterebbe leggerli e trascriverli), nella temperie di una frettolosamente conclamata «crisi» della storia sociale si è rapidamente convertita nel suo opposto. Le fonti sarebbero allora esito di manipolazioni e risulterebbero inutili, se non come testimonianza degli intenti e della cultura di chi le aveva redatte o commissionate. Sembra così smarrita la lezione del grande Marc Bloch, che stendendo l’Apologia della storia mentre combatteva nella Resistenza francese (prima di cadere fucilato dai nazisti nel 1944), invitava a leggere le fonti per quel che indicano al di là delle intenzioni dei redattori. I documenti, per riprendere un altro maestro, non sono «finestre», né «muri», ma «vetri deformanti»: non rivelano, né nascondono, ma rappresentano la realtà con gradi variabili di distorsione, che lo studioso può provare a correggere attraverso un paziente lavoro critico (Carlo Ginzburg, Rapporti di forza, Feltrinelli 1999).

LONTANO DA TENTAZIONI tardopositiviste o postmoderne, attraverso uno scavo certosino in un vasto novero di fonti e l’aiuto di specialisti e colleghi, Brunello ha così scoperto che la foto venne sì ritoccata, come era allora necessario per permetterne la riproduzione su libri e giornali, ma non fu alterata nella sostanza. L’immagine non si riferisce agli episodi a cui è stata associata, ma ha «valenze realistiche»: documenta la pratica di rubare bambini indigeni, che mette in discussione il mito del pioniere maschio europeo come unico protagonista della frontiera.

IN REALTÀ, le società coloniali non erano omogenee, perché vi agivano anche bambini e donne sottratte alle loro origini indigene e poi i figli delle famiglie «miste». Se della violenza dei coloni resta traccia, nelle interviste ai protagonisti e ai loro eredi, così come in foto e documenti, la presenza degli «altri» è stata cancellata dalla memoria pubblica e poi dagli studi storici. Doppiamente preziosa, dunque, la foto al centro del libro racconta una storia «vera» e non solo la messa in scena dell’ideologia della frontiera.

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