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Indiani d’Africa, le vittime del profitto

Indiani d’Africa, le vittime del profittofotografie nel parco nazionale dell'Omo – foto di Vincenzo Mattei

Reportage La tribù dei Mursi nel parco nazionale dell’Omo, creato dal governo etiope per meglio controllarla e favorire il turismo e lo sfruttamento economico. Organizzazioni no-profit denunciano i soprusi dei funzionari della riserva naturale. Il rischio è l’estinzione di un’altra etnia

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 27 febbraio 2016
Vincenzo MatteiADDIS ABEBA

La città etiope di Jinka è quasi a ridosso del confine con il Kenya, al centro della Bassa Valle dell’Omo, è la capitale della popolazione indigena degli Ari, ma è famosa per ospitare anche i Mursi, gli Hammar, i Banna e i Kara … tribù il cui modus vivendi è rimasto ancorato a 9000 anni fa. I Mursi vivono in capanne di paglia, macinano la farina con le pietre, praticano la pastorizia e riti ancestrali, cacciano la selvaggina e seminano ancora come gli antichi egizi dopo le alluvioni quando i fiumi si ritirano.

I Mursi come gli altri popoli amano dipingere il proprio corpo. Le donne hanno la particolarità di legare un piattello nel labbro inferiore quando diventano mogli mentre gli uomini si distinguono per la loro fierezza e il loro orgoglio. Sono famosi per la loro indole guerriera, i loro sguardi penetranti scavano nell’anima del faranji, gli stranieri bianchi. La lotta e il combattimento rappresentano un modo per mettere in mostra il proprio valore e aumentare il proprio prestigio all’interno della comunità.

Negli anni ‘60 la creazione dei parchi nazionali dell’Omo e del Mago ha permesso all’autorità centrale di Addis Abeba di riuscire a ripristinare un certo controllo sulla regione dell’Omo e di sfruttarla economicamente favorendo lo sviluppo del turismo. Il sabato è giorno di mercato a Jinka e molti membri delle tribù approfittano per andare a vendere monili, asce di legno e metallo che non riescono a piazzare ai turisti nel parco nazionale dove vivono. Al mercato i Mursi, come gli Hammar e i Banna, comprano il katikala, una grappa fatta in casa ricavata dalla fermentazione del grano, del mais e del miglio mescolati con miele e lievito che può raggiungere tra i 30° e i 50°.

Sotto il sole cocente bevono un bicchiere dopo l’altro acquistandolo per un paio di birr (circa cinque centesimi di euro) calcolando che lo stipendio di un lavoratore locale si aggira intorno ai 10/15 birr al giorno. La loro pelle scura, scarnificata da tradizioni ataviche, si imperla di sudore alcolico.

Tra il conciliante e lo sbronzo si mettono in posa per i turisti ricevendo qualche moneta che gli permette di bere per tutto l’arco della giornata.

I residenti in città della tribù degli Ari tollerano il comportamento dei Mursi perché li reputano delle vittime. I visitatori stranieri durante i tour spesso non hanno rispetto per la cultura autoctona, in molti casi sono incalzati dalle guide turistiche che provengono dal nord dell’Etiopia e trattano i Mursi con disprezzo e razzismo. Ma l’aggressività è un altro dei tratti salienti dei Mursi che con il katikala aumenta in maniera esponenziale. Nei loro villaggi è facile essere importunati se si è stranieri. È obbligatorio recarvisi solo accompagnati dalla guardia forestale per evitare di rimanere intrappolati in spiacevoli situazioni, anche perché i Mursi sono armati non solo di lance ma di kalashnikov importati dal vicino Sud Sudan e smerciati clandestinamente nella regione.

L’antropologa canadese Shauna Latroky delinea un quadro più chiaro: >I turisti vengono accompagnati in uno o due villaggi, sempre gli stessi, dove s’incontrano molti uomini ubriachi. Il governo dovrebbe permettere ai turisti di arrivare ad altri villaggi dove l’alcol è off-limits. Le guide hanno il monopolio, la cosa migliore sarebbe avere alcuni Mursi tra le guide turistiche. Le tribù vorrebbero un cambiamento ma non possono dire la loro sullo sviluppo turistico della regione perché il governo centrale vuole mantenere il pieno controllo sul turismo».

Il katikala è solo uno specchio per le allodole. L’antropologo olandese Jon Abbink (Competing practices of Drinking and Power: Alcoholic «Hgemonism» in Southern Ethiopia), nel suo libro spiega perché: «… l’abitudine a bere il katikala è inconsapevolmente parte dell’espansione del dominio dello Stato su larga parte della società etiope, incentrata sulla svalutazione delle tradizioni locali, come quella di bere il Geso (una birra cruda servita in occasioni particolari propria della tradizione agricola etiope che tende a rinsaldare l’aspetto sociale e spirituale della comunità).

Purtroppo il turista rimane superficialmente affascinato dall’aspetto antropologico dei Mursi e non si rende conto delle reali necessità e delle problematiche che la popolazione deve affrontare».

Infatti l’alcolismo è solo uno dei problemi dei Mursi, i rischi per le tribù vengono dalla diga Gibe III sul fiume Omo terminata nel gennaio del 2015. Secondo le previsioni del governo l’accumulo di acqua nei bacini idroelettrici aumenterà la capacità produttiva agricola della regione. Tuttavia le stime non tengono conto delle conseguenze devastanti che tale sviluppo agricolo può avere sulle popolazioni locali ed il loro ecosistema .Per il sito ufficiale dei Mursi (http://www.mursi.org/), riconosciuto dall’Oxford University, la massiccia conversione della Valle dell’Omo in vaste piantagioni di canna da zucchero porterà alla rilocazione forzata, alla trasformazione delle popolazioni locali da cacciatori a manovalanza a basso costo per le multinazionali o per il governo etiope, e da allevatori rurali in coltivatori sedentari.

L’organizzazione no-profit «Cool Ground», fusasi con il gruppo «Native Solutions to Conservative Refugees» per la protezione delle riserve naturali etiopi, denuncia i soprusi dei funzionari della riserva naturale e della polizia locale sui Mursi che, non sono in grado di leggere e scrivere, sono costretti a firmare contratti di vendita delle loro terre con le proprie impronte digitali (http://www.conservationrefugees.org/). L’accordo siglato dal governo centrale sulle modalità dei resettlement prevede che le persone che decidono volontariamente di essere rilocate possono essere ricompensate economicamente. Tuttavia Gordon Bennett, avvocato e autore del libro Aboriginal rights in international law, in un suo articolo su Think African Press, rivela come gli accordi non vengano affatto rispettati (http://thinkafricapress.com/ethiopia/gibeIII-omo-dfid-dag).

Le ingiustizie denunciate dall’associazione umanitaria International Rivers e da Cool Ground includono: negazione all’accesso agli approvvigionamenti alimentari, violazione dei diritti degli indigeni da parte delle autorità locali, stupri sulle donne, imprigionamenti forzati, uccisioni dei membri della comunità e sparizione del bestiame (http://www.internationalrivers.org/files/attached-files/impact_of_gibe_3_final.pdf). L’agenzia inglese per lo sviluppo DFID e quella statunitense USAID agiscono nella regione e finanziano alcuni programmi che prevedono il resettlement.

Le due agenzie continuano a ignorare gli abusi perpetrati dalla polizia e da alcune guardie forestali alle varie tribù, il loro comportamento è stato denunciato dalla Bbc e dal The Guardian nel settembre del 2012. Il Congresso degli Usa ha approvato una legge il 17 gennaio del 2014 che proibisce il supporto a soggetti che abusivamente rilocano la popolazione locale ma gli effetti rimangono tuttora effimeri. Anche Human Rights Watch denuncia gli stessi abusi sulle popolazioni indigene in un suo report del 2012 puntando il dito sulle conseguenze catastrofiche delle piantagioni di canna da zucchero (https://www.hrw.org/news/2012/06/18/ethiopia-pastoralists-forced-their-land-sugar-plantations),

Il governo britannico è stato il maggiore sponsor per la costruzione della diga ma sembra non valutare l’impatto ambientale che subirà l’ecosistema, come le conseguenze del resettlement di circa 40 mila indigeni di diverse etnie e la loro futura sostenibilità. La Bbc invece stima che le persone coinvolte nel resettlement nella regione si aggira a 1,5 milioni (http://www.bbc.com/news/uk-19508665). Le compagnie che beneficiano di questa situazione sono molte e di diversa nazionalità, investono massicciamente nel paese incentivate dagli sgravi fiscali che lo Stato etiope mette a loro disposizione. Il landgrabbing erode progressivamente il territorio in tutte le regioni. Così si possono trovare piantagioni di tulipani di società olandesi (soprattutto a nord nella regione vicino a Shashamane); o fabbriche e fattorie cinesi vicino la capitale che ri-esportano i prodotti delle coltivazioni in Cina per soddisfare il fabbisogno alimentare del gigante asiatico; o ditte italiane (Salini Impreglio) e cinesi per la costruzione di dighe mentre aziende petrolifere inglesi e cinesi trivellano i territori di diverse regioni etiopi alla ricerca dell’oro nero.

Come biasimare il governo etiope che riceve sovvenzioni e investimenti da aziende internazionali, che però alle lunghe pesano per lo sfruttamento intensivo del territorio, quando il Pil pro capite è di $1,3 al giorno? Ma come implementare un’architettura simile quando il capitalismo galoppante esige solo il profitto? Chi veramente sarebbe interessato a promuovere un meccanismo simile? Ma soprattutto, come farebbero le UN a renderlo effettivo? È un’iniziativa che dovrebbe venire dagli africani per preservare il proprio continente spesso dilaniato da dittature fantoccio e dal proliferarsi del terrorismo fanatico in alcune regioni.

Per alcuni esperti del settore il turismo nella regione della Bassa Valle dell’Omo non riesce a decollare proprio per colpa dei Mursi che, continuando a praticare le loro abitudini arcaiche, ne rendono difficile lo sviluppo; ad esempio la pastorizia praticata dai Mursi toglie pascoli alla selvaggina e anche i loro riti propiziatori contribuiscono al depauperamento della fauna. Però l’antropologa Latosky non è d’accordo: «Come testimoniano i lavori degli etnologi Ivo Strecker e Jean Lydall, sono i popoli più numerosi come gli Hammar, e non i Mursi, che decimano gli animali della savana … ma niente in confronto alle stragi fatte dai bracconieri. Se si guarda alla drastica diminuzione degli elefanti nell’Africa Orientale bisogna puntare il dito contro le milizie militari della regione che contrabbandano l’avorio per conto dei signori della guerra del Sud Sudan e della Somalia con grandi profitti per quest’ultimi».

Oggi il paese è all’inizio di un boom economico che sta invadendo tutta l’Africa. Fino a qualche anno fa erano in pochi coloro che si avventuravano nella Valle dell’Omo, una terra difficilmente percorribile se non con una jeep. Quando i torrenti erano in piena si potevano impiegare anche due giorni per arrivare da Addis Abeba nella valle. Ora la strada asfaltata che porta a Jinka è terminata e con essa l’aumento dei turisti e degli investimenti sarà garantito.

Il cambiamento degli stili di vita che s’intravede già all’orizzonte potrebbe mettere in pericolo l’esistenza delle tribù indigene, e nulla importa che costituiscano Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. David Turton, direttore del sito Mursi.org, mette in evidenza: «… questi tipi di schemi di sviluppo, anche con le migliori intenzioni, non funzioneranno, a meno che, fin dagli inizi ci sia un programma di giuste compensazioni, divisione dei benefici e ricostruzione sostenibile. Nessun programma del genere è stato messo in piedi nella regione del Basso Omo, il futuro per i Mursi come per le altre popolazioni è fosco e pieno d’insidie». I Mursi e le altre etnie sono gli indiani d’Africa, l’ennesime vittime di un progresso che pensa solo al profitto e all’accaparramento delle risorse. L’antropologa Latroky aggiunge: «Le piantagioni di zucchero seguono uno schema del vecchio colonialismo. Possono portare un certo beneficio per la popolazione locale, ma nessuno si è preso la briga di domandare ai Mursi e alle altre etnie cosa credono sia meglio per il loro futuro».

La testimonianza di alcuni Mursi estrapolata dal sito di Human Right Watch è decisamente molto più esaustiva: «Il governo dice di vendere tutto il gregge e rimanere con una capra legata alla porta di casa. Che ci faccio solo con una capra? Sono un Mursi, se viene la carestia posso uccidere un animale e mangiare. Quando ci sposiamo portiamo in dote il nostro bestiame, se ce lo tolgono con cosa ci sposiamo

Cosa mangeremo? Cosa daremo da mangiare ai nostri figli? Questa è la mia foresta».
Una donna Mursi gli fa eco: «I nostri avi hanno sempre vissuto in questa terra. I nostri padri vivevano qua e anch’io vivo qua … Gli uomini prendono un amo e vanno a pescare al fiume, prendono un pesce e me lo portano per mangiare. Vanno anche a caccia per portare cibo ai bambini. A chi appartiene questa terra? Appartiene a me». Oggi i Mursi bevono la katikala, mentre lo fanno vedono scomparire le proprie radici quasi senza accorgersene. Sebbene siano annebbiati dall’alcol, la consapevolezza di ciò che sta accadendo va a poco a poco prendendo piede e sfociando in scontri violenti con le autorità.

La popolazione dei Mursi, per quanto esigua (circa 10000), come le diverse etnie della Valle dell’Omo, costituisce il genoma primordiale che lega l’intera umanità a un passato che, se non protetto, andrà ad allungare la triste lista dei popoli estinti.

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