Indagine sullo scrittore di tutti e di ognuno
ITALO CALVINO La sua natura «inafferrabile» nel saggio di Domenico Scarpa per Hoepli. L’analisi del percorso apparentemente imprevedibile dell’autore di opere così dissimili l’una dall’altra. Non una biografia nel senso convenzionale, ma la ricognizione su un corpo testuale che pare destinato a crescere spostando di continuo in avanti, verso il lettore, il proprio confine. Sul fondo, la fisionomia di un autore compagno di Picasso o Stravinsky, che della sperimentazione ha fatto il centro di una letteratura da viversi come experimentum mundi
ITALO CALVINO La sua natura «inafferrabile» nel saggio di Domenico Scarpa per Hoepli. L’analisi del percorso apparentemente imprevedibile dell’autore di opere così dissimili l’una dall’altra. Non una biografia nel senso convenzionale, ma la ricognizione su un corpo testuale che pare destinato a crescere spostando di continuo in avanti, verso il lettore, il proprio confine. Sul fondo, la fisionomia di un autore compagno di Picasso o Stravinsky, che della sperimentazione ha fatto il centro di una letteratura da viversi come experimentum mundi
Uno scrittore imprevedibile, anzi inafferrabile, per lungo tempo tale è sembrato Italo Calvino che redigeva pagine pervase da una chiarezza cristallina (più d’uno disse da illuminista redivivo) e però continuava a dislocare opere così dissimili l’una dall’altra (o almeno lo sembravano al loro primo comparire) da mettere continuamente in crisi il proprio sigillo d’autore perché colui che le aveva appena firmate, infatti, già si trovava oltre l’ultima sua immagine fissata nel senso comune. Calvino ha avuto moltissimi lettori e tuttavia ognuno di costoro serba un proprio Calvino personale, elettivo. La pluralità è la stessa di un diorama molto luminoso che, nel paese della retorica e del latinorum, sappia arrivare al lettore e addirittura pungerlo proprio laddove mai se lo aspetterebbe.
SPIAZZANTE senza mai essere eccentrico, Calvino ha fatto proprio all’origine quanto un grande critico e suo amico, Cesare Cases, avrebbe chiamato, trattandone l’opera, il pathos della distanza. vale a dire lo spazio-tempo con cui lo scrittore ogni volta non solo tiene a bada la materia (cioè la raffredda, senza sconsacrarla, quel tanto da toglierle ogni aura inibitoria) ma sa mettere il lettore nelle condizioni di coglierla come fosse per la prima volta. Che sia una distanza, un ostacolo, un diaframma non importa, fatto sta che nel tempo si susseguono immagini sistematicamente discontinue e alla lunga diametrali di Calvino: l’esordiente con l’epica picaresca de Il sentiero dei nidi di ragno (’47); lo scrittore dei racconti generazionali inclusi ne L’entrata in guerra (’54); il favolista ed etnologo che raccoglie e riscrive le Fiabe italiane (’56); l’autore dei meravigliosi contes philosophiques che compongono I nostri antenati (’60) e degli apologhi urbani intitolati a Marcovaldo (’63); lo stenografo della crisi post-’56 di tutto il campo progressista che riverbera ne La giornata d’uno scrutatore (’63); l’inventore di una immaginosa SF con Le cosmicomiche (’65); il cartografo che firma Le città invisibili (’72) e infine l’esecutore testamentario della forma-romanzo che si cela in Se una notte d’inverno un viaggiatore (’79) e nelle partiture fenomenologiche, di trasparenza ormai glaciale, che ordiscono Palomar (1983).
Quelli appena richiamati sono solo i titoli canonici del Calvino di tutti che in realtà scopriamo essere potenzialmente il Calvino di ognuno (dunque mutevole ma fedele a se stesso, centrifugo in superficie ma centripeto sottotraccia) dopo avere ultimato la lettura – impresa che vale tutto il tempo che richiede – di un contributo memorabile, eminente fra i non pochi usciti per il centenario, a firma di Domenico Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore (Hoepli, “Saggi”, pp. 829, euro 30), laddove la nettezza del sottotitolo riassorbe l’alone metaforico del titolo medesimo.
Impeccabile dal punto di vista filologico e documentario (ricchissimi, in proposito, anche gli apparati e gli indici) il lavoro di Scarpa conferma quanto era già apprezzabile nei suoi molti contributi pregressi (tra gli altri su Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani, Fruttero&Lucentini per tacere del prezioso Album Primo Levi, Einaudi 2017) giusto a partire dalla sua prima monografia, strutturata per parole-chiave, Italo Calvino (Bruno Mondadori 1999) che si interponeva allora fra le maggiori uscite di una generazione peraltro tutta calviniana, da L’occhio di Calvino (1996) di Marco Belpoliti a Calvino (1999) di Silvio Perrella, oltre alle prove propriamente ecdotiche (i Romanzi e racconti – “Meridiani” Mondadori 1991-’94 – a cura di Claudio Milanini, Mario Barenghi e Bruno Falcetto, tutti quanti debitori del lavoro di Luca Baranelli in una messe di contributi tra cui la fondamentale Bibliografia di Italo Calvino, Edizioni della Normale 2007).
DIFFICILE INCASELLARE il libro di Scarpa perché non è una biografia nel senso convenzionale né, tanto meno, un’expertise accademica. Non è nemmeno ciò che gli anglosassoni chiamano moral essay ma piuttosto è la ricognizione, inesausta, su un corpo testuale che pare vocato a non esaurirsi neanche dopo analisi lenticolari e sembra viceversa destinato a crescere spostando di continuo in avanti, verso il lettore, il proprio confine. Scarpa procede per griglie inapparenti e però, se viste da vicino, a maglie strettissime mentre il suo stile, inconfondibile, è quello della conversazione che porge con affabilità (e calviniana “leggerezza”) senza perdere in rigore filologico e nella pregnanza del dettato.
Al centro della vasta orografia di Calvino fa la conchiglia viene progressivamente in luce la fisionomia di uno scrittore in realtà compagno di Picasso o Stravinsky, perciò uno che ha fatto della sperimentazione, mito secolare del cosiddetto modernismo e delle avanguardie, non tanto un espediente tecnico quanto la cosa-in-sé di una letteratura da viversi nei modi di un vero e proprio experimentum mundi. Perché provare, riprovare e ricominciare ogni volta non vuol dire affatto soggiacere alla poetica del frammento e dell’incompiutezza che pure pertiene intimamente al Novecento ma significa semmai smarcarsene, perseguire una integrità ulteriore e necessariamente diversa.
L’effetto di spaesamento avvertito dal lettore che passa da un Calvino all’altro (o insomma da uno stereotipo al successivo) senza rispettare le quote di spazio e di tempo che l’autore in persona ha voluto per sé e per lui, si vieta al momento l’immagine che gli si impone fatalmente nel lungo periodo, la stessa di un’opera compatta, coesa se mai ce ne furono. Perché sotto l’ultima maschera di Calvino c’è ancora una maschera di Calvino, il suo volto, e ne è riprova ad esempio Se una notte d’inverno un viaggiatore, costruito come piccola enciclopedia dei possibili narrativi e come congedo nel frattempo dalla forma-romanzo. Costante e ciclico in Calvino è l’impulso di uscire dal seminato e andare oltre, come scrive nel ’49 a Geno Pampaloni: «Il mio problema è oggi uscire dai limiti di questi libri, di questa definizione di scrittore d’avventura, di fiaba e di divertimento, in cui non riesco a esprimermi e ad esaurirmi fino in fondo». E per via indiretta lo confermano sia i rapporti con i maestri e compagni di via (da Pavese, Vittorini e Fenoglio specialmente negli anni di formazione, poi Carlo Ginzburg e Gianni Celati nella maturità fino a Raymond Queneau e Georges Perec nel periodo parigino) sia gli scambi con gli interlocutori di un epistolario che include, fra i numerosi altri, anche Sebastiano Timpanaro (perché Calvino fu un materialista sempre conseguente) e, prossimi e remoti insieme, Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini.
CIRCA LA SUA IMMAGINE cangiante e la sua pervicace volontà di “rischiare” sempre un’opera nuova e così mutare immagine, ha dichiarato molti anni fa Giulio Bollati: «Gli chiedevo di scrivere quel libro, che mi pareva un capolavoro alla sua portata, e lui scuoteva la testa. Come si fa a dire adesso che aveva torto? Ma a me pareva ancora una volta che non volesse essere fermato e schedato, neppure come grande romanziere. Doveva spostarsi, cambiare aria, fuggiasco imprendibile». D’altronde, Scarpa sostiene che la sua «vicenda di scrittore è una serie di tentativi di scrivere, ogni volta, il primo libro».
In realtà il Calvino di tutti divenuto via via il Calvino di ognuno è semplicemente colui che affida alla scrittura il compito di conoscere, con i mezzi suoi specifici, la realtà del mondo e il riflesso che ne segna l’esperienza: «L’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso», disse lo scrittore nel ’67. Domenico Scarpa per parte sua ne conclude che l’esperienza del mondo corrisponde, nella letteratura di Italo Calvino, ad una mappa accuratissima, ad un’autentica ékphrasis cognitiva. «Non per niente Calvino ci appare oggi come lo scrittore della pienezza intellettuale del suo tempo».
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