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Indagine sulla grazia

Indagine sulla grazia

Storia dei gesuiti "La vocazione", una ricerca condotta da Adriano Prosperi tramite lo studio dei racconti di vita, raccolti tra la fine del ’500 e i primi del ’600, per documentare la formazione secondo Ignazio di Loyola

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 10 aprile 2016

La luce, dall’alto a destra, colpisce d’improvviso un gruppo di ragazzi intenti al gioco delle carte, mentre una finestra chiusa, sul muro di fronte, indica che siamo in un interno, e anzi, per meglio dire, in un luogo interiore. L’illuminazione rischiara in particolare uno dei giocatori, che sembra consapevole della natura miracolosa dell’evento, del trattarsi di una chiamata divina, di essere lui il prescelto. La scena è quella mirabilmente rappresentata da Caravaggio nella Vocazione di Matteo, e ora campeggia in copertina del volume di Adriano Prosperi, La vocazione: Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (Einaudi, pp. XIX-252, euro 30.00).
Storico dell’età dei conflitti di religione, autore del celebrato Tribunali della coscienza. Inquistori, confessori, missionari e poi di altri raffinati testi, Prosperi offre una riprova, con questo libro dedicato ai gesuiti, della sua maestria. Fondata da Ignazio de Loyola alla metà del XVI secolo, la Compagnia di Gesù sfiderà i tradizionali ordini religiosi (Domenicani, Francescani etc.), conquistando una posizione di predominio nell’universo cattolico. I gesuiti, che oltre ai voti ordinari giurano un voto speciale (quello di dare la vita per combattere sotto le insegne di Cristo, ubbidendo ciecamente agli ordini del Papa, perinde ac cadaver) diverranno infatti l’esercito prescelto della Chiesa nella sua triplice battaglia contro l’eresia riformata, la minaccia islamica e l’evangelizzazione dei «nuovi» popoli al tempo delle scoperte geografiche. Confessori di re ed educatori di potenti, ferventi missionari e rinnovatori del teatro sacro di strada, saranno una presenza tanto forte da diventare ingombrante: resi ricchi dalle cospicue donazioni dei fedeli, stenderanno sul globo una formidabile rete di istituti d’istruzione, che alla metà del Settecento giungerà al numero di 750 collegi, di cui 500 in Europa.
Lo straordinario successo gesuitico non avverrà senza contrasti, anche all’interno della Chiesa. Ne deriveranno una serie di figure stereotipe: tra esse il gesuita ipocrita, umile ma in fondo superbo; il gesuita devoto, esponente di una religiosità esteriore incarnato dal Tartufo di Molière; e poi ancora il gesuita machiavellico delineato da Étienne Pasquier; e infine il gesuita insinuante e capzioso, capace di infiltrarsi nelle famiglie conquistandone la fiducia, per poi tradirla, asservendole ai suoi fini, economici e culturali. Soprattutto, il gesuita, come l’ebreo o il massone, sarà individuato come tessitore di oscure trame: sorge con loro l’imperituro tema della cospirazione universale, quella delineata nei Monita secreta, all’origine di altri celeberrimi e famigerati testi, dai Mémoires di Barruel ai Protocolli dei Savi di Sion.
Rispetto a questo fantasmagorico universo di immagini lo sforzo dichiarato di Prosperi è quello di «uscire dal teatro d’ombre e raccontare chi furono di fatto e in concreto i gesuiti». Un proposito a prima vista forzato (quegli stereotipi furono anch’essi parte della «realtà» della Compagnia, perché ad essi reagirono o si conformarono gli individui e le pratiche) che trova però il suo eccellente sostegno in una fonte unica: i racconti di vita, o per meglio dire i racconti di vocazione, che gli stessi gesuiti furono obbligati a stendere e che, soprattutto nel periodo che va dagli anni settanta del Cinquecento ai primi del Seicento, sono stati ordinatamente raccolti e conservati.
L’analisi di questa fonte condotta da Prosperi è un esercizio di virtuosismo e insieme una eccellente lezione di metodo storico, centrata sulla dimostrazione di quanto sia sbagliato individuare, in questi testi di taglio autobiografico, il resoconto spontaneo di un percorso di fede o, peggio, un facile accesso privilegiato, oggi tanto di moda, alle «emozioni» che l’accompagnano. Fanno parte, invece, della formazione del gesuita così come Loyola l’aveva delineato. Per questo i racconti sono costruiti su una trama comune, organizzata su uno schema ripetuto: l’illuminazione divina e l’incontro con la Compagnia, il difficile passaggio-soglia dalla vita vecchia alla nuova, e attraverso essa, infine, il raggiungimento della pace interiore. Testi codificati, dunque, che più che raccontare individui rendono conto della costruzione del tipo del gesuita, e che di questa costruzione sono parte importante. Nati per essere raccolti al fine di servire come materiali per le varie storie generali della Compagnia che si venivano organizzando proprio in quel periodo – come quella di Daniello Bartoli – i racconti di vocazione sono in pratica percorsi d’iniziazione che ruotano attorno a un caposaldo, l’incontro inatteso e sorprendente con la grazia di Dio.
Sta qui il contributo fondamentale del libro: rendere – e non poteva essere detto meglio – il richiamo fortissimo che l’ideale della perfezione esercitava sulla gioventù dell’epoca. Lutero prima e poi Calvino avevano lanciato una sfida devastante, quella della possibilità diretta di accesso del credente al divino, saltando la mediazione della Chiesa, attraverso un resa totale alla volontà di Dio. Ebbene, la risposta cattolica impostata da Ignazio e codificata negli Esercizi spirituali sarà su questo stesso terreno e perciò ben diversa dalla tradizionale ricetta di una ben regolata devozione. Se nel caso dei protestanti, luterani e poi anche calvinisti, tutta la vita deve testimoniare il possesso della grazia di Dio, l’unica che salva, in quello dei gesuiti l’ideale della perfezione svolge lo stesso carattere di distinction (intesa proprio à la Bourdieu): occorre essere perfetti per rendere riconoscibile l’elezione divina che, per imperscrutabili motivi, viene concessa ad alcuni, gli eletti, una grazia particolarissima, «un auxilio et concorso speciale». Grazie a questo varco è così possibile immaginare, anche nel mondo cattolico, un protagonismo del credente che aspira, attraverso l’imitazione di Cristo, a un ascetismo mondano che punti al «farsi santo».
Il successo della proposta gesuitica dipenderà, certo, dalla valorizzazione del talento che essa trascina con sé e anche dall’investimento imponente nello studio come strumento di adeguamento alla modernità e di conservazione/ascesa sociale, un tratto entusiasticamente accolto dalle élites europee. E dipenderà, forse soprattutto, dall’effetto di rassicurazione sociale prodotto dall’affiancamento dell’aspirante gesuita da parte di un Direttore spirituale che ne scruta con attenzione i passi in avanti e anche i passi falsi, quasi fosse un moderno psicoanalista. Ma a garantire il successo sarà soprattutto l’incontenibile fascinazione del messaggio gesuitico tra i giovani, e i giovanissimi, a dispetto di accanite resistenze familiari. L’invito divino che irrompe nella vita dell’uomo e che intima: «vieni e seguimi» (Mt 19,21) acquista grazie all’armatura gesuitica una forza irresistibile.
Secondo Prosperi c’è un’analogia tra il «fascino rivoluzionario» dei gesuiti delle prime generazioni e quello emanato dai comunisti italiani degli anni cinquanta del XX secolo: anche in quel caso c’era l’attrazione di un progetto di mutamento della società prodotto da una trasformazione antropologica, attraverso la creazione di «uomini nuovi» plasmati da una speciale pedagogia, fatta di devozione incondizionata all’Idea. Anche i comunisti scrivevano le loro storie di vita e di adesione alla Causa, e anche i comunisti furono accusati di doppiezza. Anche i comunisti, infine, si sottoponevano alla pratica della confessione pubblica, chiamata autocritica.
Prosperi non approfondisce queste suggestioni, che meriterebbero invero un’indagine specifica, in mancanza della quale non sappiamo se davvero sia possibile rintracciare nella pedagogia comunista dei fili che la riconducano così direttamente a quella gesuitica; ma di certo sappiamo cosa ha permesso a Prosperi di avvicinarsi in modo tanto originale alla suggestione e alla forza straripante del «rivoluzionario» messaggio gesuitico tra Cinque e Seicento.

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