Nella collana «Utopia/distopia. La nostra polis di domani», diretta da Aldo Meccariello, è appena apparso un volumetto scritto da Rosaria Catanoso e Giuseppe Cantarano dal secco titolo di Intellettuali (Asterios, pp. 96, euro 7,90).
La collana esprime la consapevolezza che, con la pandemia e la guerra, è intervenuta una cesura che ha modificato i linguaggi e lo stesso nostro modo di vivere e convivere con gli altri, imponendoci il compito di un impegno per la realizzazione della polis di domani.

È IN QUESTO QUADRO che va collocato e si spiega il titolo del volume che, nella sua serrata struttura, sembra riproporre in crescendo le vicissitudini contraddittorie e caotiche del periodo da poco trascorso, interrogandosi su chi siano stati nel periodo del coronavirus gli intellettuali e operando una riflessione filosofica sulla complessità e le incertezze del presente, spingendoci a indagare sulla nostra vita politica, sui rapporti tra intellettuali e politica, intellettuali e scienza, scienza e filosofia, politica e scienza, politica e diritto. Per indicare le trasformazioni a cui questi rapporti sono stati sottoposti virando verso una attenzione particolare alla sfera pratica.

Data la ricchezza dei temi è impossibile operare una sintesi esaustiva del volumetto, che richiede uno sforzo per cogliere tutte le problematiche richiamate. Si può però riflettere su alcune suggestioni.

LA PRIMA RIGUARDA l’attenzione che gli autori dedicano al rapporto tra intellettuali e mezzi di comunicazione e alle sue mutazioni con l’intervento di nuove figure, per cui la vera difficoltà nel rappresentare «l’intellettuale» in tempi di pandemia è data dal fatto di dover attribuire quella condizione a soggetti connotati da funzioni pratiche e operative.
Riflettere sugli intellettuali e sulla pandemia significa cogliere anche come gli ambiti del pensiero, della conoscenza, della filosofia non possano più essere lontani dalla scienza, dalla medicina, dall’ecologia, dall’economia, dalla biologia. Occorre andare oltre gli specialismi che frazionano la realtà, per muoversi nella direzione di un’epistemologia della complessità che integri scienze della natura e dello spirito.

Un altro aspetto da sottolineare è l’ambiguità della politica che emerge nell’opera. Al di là delle perplessità sul ruolo dei nuovi intellettuali, cui risponde il primo capitolo su «Medici, virologi e voci di scienza», il libro entra nel vivo discutendo della politica tra normatività e vita e avviando una panoramica sul potere nella quale si intravedono due linee. Da una parte, si coglie come i problemi scaturiti dall’epidemia impongano urgentemente a ciascuno di noi di riflettere sul proprio ruolo all’interno della società. La pandemia dovrebbe averci dato la consapevolezza del senso del limite, inteso come impossibilità di padroneggiare gli eventi.

SENSO DEL LIMITE, quindi, che implica la necessità di pensare a modelli di crescita pronti ad affrontare tutte le emergenze del tempo. Visione ottimistica che spinge all’importanza del pensare come esercizio di vivere, alla rilevanza della filosofia come pratica di vita.

Ma, di là di questo auspicio, gli autori sono consapevoli del fatto che il tessuto del nostro fare – il fare costitutivo della prassi politica – è innervato dalle fibre demoniache del potere, che si esprime nella volontà di dominio. Senza la quale nessuna grande costruzione politica sarebbe ipotizzabile. E il cui carattere consiste esattamente nell’essere predisposti al conflitto per il potere, piuttosto che al conflitto per il bene della polis.

Per usare le parole di Machiavelli, «più pronti al male che al bene». Costruire e distruggere appartiene a quel «diabolico» che contraddistingue il nostro fare politico, «sempre scisso – e sospeso – tra ordine e conflitto. Tra virtù e fortuna. Tra necessità e contingenza. Tra bene e male». E su questo aspetto forse la cesura ricordata non sembra esistere.