Cultura

Incursioni magiche in una favola operaia

Incursioni magiche in una favola operaiaAree in costruzione nel barrio di San Blas, 1972. Archivio Luis Cubillo

Narrativa spagnola In libreria «La cattiva abitudine» di Alana S. Portero. San Blas è un luogo violento e crudele, ma anche un laboratorio politico «dal basso»

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 13 marzo 2024

Il corpo di un adolescente seminudo giace senza vita in un sudicio giardinetto di periferia e, mentre le urla della madre chiamano a raccolta i vicini, un bambino di neppure sei anni osserva estatico e turbato l’«angelo» cui né l’eroina né il volo dal terzo piano hanno tolto la bellezza. Nessuno, tra gli adulti inorriditi che lo circondano, sa che quel bambino troppo in carne, stretto tra la madre e la zia, in segreto si sente e si pensa bambina e che il suo sguardo, fisso sul volto intatto del ragazzo, è quello del primo amore.

È CON QUESTA IMMAGINE che si apre La cattiva abitudine di Alana S. Portero (Mondadori, pp. 192, euro 18,50, la traduzione è della brava Giulia Zavagna), romanzo d’esordio che va ad aggiungersi alle raccolte di versi, alle opere teatrali e alla fitta produzione giornalistica dell’autrice, nata nel 1978 nel distretto madrileno di San Blas, all’epoca un ghetto per famiglie povere, prostitute, delinquenza minuta e giovanissimi zombie disposti a tutto per una dose: una zona ai margini dell’euforia post-dittatura e dell’incipiente movida, dove Portero colloca le vicende di una protagonista che sin dalla prima infanzia non sa come abitare il proprio corpo e non possiede ancora le parole per dirlo, a sé stessa prima che agli altri.

La tentazione dei lettori e di molti critici è stata, da subito, quella di identificare l’autrice con il personaggio, ma Portero – proprio come l’argentina Camila Sosa Villada, altra scrittrice trans di cui Sur ha pubblicato recentemente Le cattive e Sono una pazza a volere te – rivendica il suo diritto all’immaginazione e nega ogni accenno autobiografico, pur ammettendo di aver attinto alla propria esperienza, com’è del resto inevitabile per qualsiasi narratore. Non siamo di fronte a un memoir, dunque, e neppure a una testimonianza di vita, ma a un’opera letteraria intensa e suggestiva, in cui i riferimenti alla cultura pop sembrano comporre un pantheon generazionale e le citazioni «colte» rimandano al mito greco, al gotico, al romanticismo ottocentesco e all’Alice di Carroll, ovvero alle letture e alle passioni dell’autrice.

Pur alludendo di continuo a questo suo retroterra composito e dalle sfumature fantastiche, Portero non rinuncia al realismo e descrive con orgogliosa efficacia il contesto sociale di un quartiere proletario nella Madrid degli anni ’80, tanto da definire La cattiva abitudine una fabula obrera, in cui l’appartenenza di classe e la condizione operaia hanno un peso pari, se non superiore, alla tematica trans. Il suo San Blas è un luogo duro, violento e spesso crudele, ma anche un laboratorio politico «dal basso», animato da uno spirito comunitario che dà vita a un vigoroso movimiento vecinal fondato e sostenuto in primo luogo dalle donne, quasi sempre sfinite dal lavoro in casa e fuori, e tuttavia capaci di offrire alla collettività una presenza vigile e combattiva.

Per la protagonista sono un primo insostituibile modello, cui si aggiungerà poi quello offerto da tre anziane trans, Margarita, Eugenia e Lucia, che durante il franchismo hanno affrontato i rigori della Ley de Peligrosidad Social (rimasta in vigore anche nei primi anni della Transizione alla democrazia), il carcere e ogni genere di soprusi.

TRE SOPRAVVISSUTE che assumono, nel corso della vicenda, il ruolo di veri e propri «aiutanti magici» e vegliano su ogni svolta della trama, garantendo all’inesperta eroina la necessaria genealogia; è anche grazie alla loro presenza, inoltre, che il romanzo può coprire l’intero arco di un’esistenza trans: l’infanzia confusa e silenziosa (i capitoli che Portero le dedica sono incantevoli e rivelatori), l’adolescenza che azzarda un primo approccio con il sesso, la giovinezza che ogni sera passa attraverso lo specchio della trasformazione per entrare di nascosto nel paese delle meraviglie, un’età adulta fatta troppo a lungo di finzione e di rinuncia, e infine la vecchiaia, che dichiara consapevolmente e con qualche ironia: ci siamo sempre state, ci saremo sempre.

La familiarità di Portero con la poesia emerge dall’uso seduttivo di un linguaggio misurato, lirico e immaginoso; la sua esperienza di drammaturga e regista teatrale emerge nell’abile disegno dello spazio: quello chiuso e soffocante dei piccoli alloggi popolari o dei club notturni; quello ribollente, squallido e generoso del quartiere, fatto di voci fragorose, di porte e finestre sempre aperte sulle vite altrui; quello buio e onirico del centro di Madrid, labirinto di piazze e stradine da percorrere a piedi, tra incontri provvidenziali ed aggressioni improvvise; quello collettivo dei picchetti davanti ai cancelli della fabbrica, o dello stadio di calcio in cui la protagonista va ad esibire una mascolinità fasulla. Spazi differenti in cui il corpo trans di rado si sente al sicuro e che frequenta con tutti i sensi all’erta: un attimo di disattenzione può costare l’aperta derisione, l’insulto, un pestaggio feroce.

QUA E LÀ IL RITMO della narrazione si spezza e lascia il posto a monologhi fin troppo carichi di intenzioni, come se nell’autrice prevalesse l’ansia di trasmettere con chiarezza le proprie ragioni, senza lasciare nulla in sospeso; il testo, però, si riprende in fretta grazie a una scrittura sempre capace di sostenerlo, a un tono personale e inconfondibile e a un punto di vista che apre ampie prospettive di riflessione, facendo giustizia degli innumerevoli stereotipi che, a volte con le migliori intenzioni, costruiscono intorno alle persone trans un immaginario pericolosamente «consumabile» e superficiale.

Un libro da leggere, insomma, magari superando l’ostacolo di una copertina chiassosa quanto convenzionale, priva del garbo e dell’originalità di quella dell’edizione Seix Barral: un collage ideato ed eseguito da Roberta Marrero (artista e poetessa trans di cui il romanzo riporta alcuni versi in epigrafe), che ha trasformato l’immaginetta di un santo bambino in un raffinato «altare» marica, tra rose blu, colombe in volo e tacchi a spillo. E proprio l’incipit di una sua graphic novel (El bebé verde. Infancia, transexualidad y héroes del pop, pubblicata nel 2016 da Lunwerg Editores con un prologo di Virginie Despentes) potrebbe riassumere in una frase il romanzo di Portero: «Non sono nato né maschio né femmina. Sono nato bebé. Ho bisogno di tempo per capire chi sono».

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