Incursioni libere nel cinema, le declinazioni dell’immaginario
Locarno 74 Con la proiezione di «Respect» di Liesl Tommy, biopic su Aretha Franklin interpretata da Jennifer Hudson, si è chiusa l'edizione del ritorno dopo la pandemia. Nel segno del genere e della sperimentazione, ma senza tradire la sua storia,
Locarno 74 Con la proiezione di «Respect» di Liesl Tommy, biopic su Aretha Franklin interpretata da Jennifer Hudson, si è chiusa l'edizione del ritorno dopo la pandemia. Nel segno del genere e della sperimentazione, ma senza tradire la sua storia,
Che festival è stato questo Locarno 74, ritorno dopo la pandemia – «Cinema is back» era la frase che scorreva sugli schermi prima di ogni proiezione – e debutto alla direzione di Giona A.Nazzaro? Una scommessa prima di tutto come ogni ritorno che, inevitabilmente, segna anche un passaggio verso qualcos’altro, e del resto il direttore artistico lo ha dichiarato subito di voler imprimere al festival un segno diverso – ovviamente senza «tradire» la sua storia legata a un cinema indipendente e autoriale che a lungo non ha escluso una dimensione «pop». E questa sembra anche essere la cifra di Nazzaro che intorno alla suggestione del «genere» ha costruito un programma volutamente diversificato, con cui ha accettato il rischio – artistico, legato al momento storico, organizzativo: Green pass, prenotazioni, Covid test – praticando una incursione libera su molti terreni e declinazioni dell’immaginario.
DI QUESTO «MANIFESTO» – dichiarato dai film di apertura e chiusura, in Piazza Grande, Beckett di Ferdinando Cito Filomarino e Respect di di Liesl Tommy, e nei registi di riferimento, da John Landis – Pardo d’onore 2021, a Michael Mann, il cui Heat (1999) è stato proiettato in occasione del premio alla carriera a Dante Spinotti (raccontato anche nel bel ritratto che ne fa Where Are You di Riccardo Spinotti e Valentina De Amicis) passando per Robocop (per il premio a Phil Tippett) e Vortex di Gaspar Noé, fino alla retrospettiva (per molti una scoperta) su Alberto Lattuada, il Pardo d’oro, Vengeance is Mine, All Others Pay Cash di Edwin, è una perfetta sintesi – un po’ del resto come l’intero palmarés del concorso internazionale, giuria presieduta da Eliza Hittman (Mai raramente a volte sempre, 2020).
Il regista indonesiano in un melodramma di lotta e di arti marziali, con un protagonista sessualmente impotente nell’Indonesia degli anni Ottanta della dittatura di Suharto, ci mostra come fare un cinema politico utilizzando ogni forma e genere, nell’epopea di eroi che capovolgono i ruoli e il segno degli immaginari a cui fanno riferimento. La stessa tensione che attraversa – nel riflesso realtà/messinscena il magnifico Zeros and Ones di Abel Ferrara, premiato per la regia o A New Old Play di Qiu Jiongjong, la storia della Cina tra il nazionalismo e la Lunga Marcia, narrata attraverso la vita di un attore, rimasto intrappolato nel limbo, che figlio d’arte aveva iniziato sin da piccolo a studiare l’opera classica nella compagnia di un militare nazionalista. E che tra costrizioni e rifugi oppiacei, mentre i «maestri» emigravano a Taiwan seguendo l’esercito nazionalista, era rimasto passando dall’arte per la nazione a quella per il popolo, in una promessa di nuova indipendenza. Di fatto non mantenuta, perché la politica tende sempre al controllo, in quelle ere lontane e oggi – come sappiamo dalle cronache di molti registi cinesi e non solo. Una parabola che Qui Jiongjong rappresenta con immagini sinuose, composizioni ricercate e situazioni spesso surreali, nella frontalità delle scena dell’opera classica – ma forse senza quel tocco stridente di altri registi, uno fra tutti il Jia Zhangke ai tempi di Platform.
«HA DIECI ANNI ma la voce di una donna di trenta» diceva di lei Dinah Washington mentre quella ragazzina tirata giù dal letto veniva esibita dal padre davanti alla platea di amici e invitati alle sue serate. Detroit, anni Cinquanta, la piccola Aretha detta Ree, ha un talento speciale, il padre pastore di una grande comunità, poi vicino a Martin Luther King, lo coltiva con cura ma anche con controllo minuzioso: Aretha canta in chiesa, è la sua gemma, ma poi non sembra curarsi troppo di cosa le accade, un figlio a dodici anni, un altro a quattordici, si suggeriscono molestie dei frequentatori della casa, ma Liesl Tommy su questo punto glissa – e la stessa Aretha a chi le chiederà in futuro, quando è ormai adulta preferisce non rispondere. Aretha è naturalmente Aretha Franklin, la Lady Soul di cui Respect – che appunto ieri sera ha chiuso il Festival in Piazza Grande – narra la vita, la carriera, gli amori (sfortunati) le dipendenze, i traumi a cominciare dalla morte della mamma, Barbara, anche lei cantante e musicista, il successo, la liberazione fino a quell’Amazing Grace nato da una crisi, in cui nessuno credeva e che è diventato disco vendutissimo – Franklin che canta in chiesa è filmata su suggerimento del manager da Sidney Pollack nel magnifico film «liberato» da poco dopo anni e anni di stop per questioni legali e per volere della musicista. Figura complessa, impegnata nella lotta per i diritti civili degli african american, sarà lei a cantare al funerale di King ma anche davanti a Obama, con continui slanci di liberazione e ricadute nel patriarcato, dal padre (Forest Whitaker) a cui la lega una relazione violenta, sarà il suo manager per tutti i primi anni di carriera, al primo marito, che la sfrutta e la picchia. Unita a quella famiglia – le sorelle lavorano con lei – nonostante le liti, e in fondo alle sue radici.
BIOPIC in senso convenzionale, con qualche inciampo specie nel racconto dei momenti di «caduta» (sempre i più a rischio), Respect vince però su due piani: quello dei brani musicali presentati con puntualità e, soprattutto, della sua attrice protagonista, Jennifer Hudson, che interpreta the Queen, nell’intimità e sul palco. Presenza che riesce a infondere a questa narrazione che mai si allontana dalle biografie ufficiali – la sceneggiatura è di Tracey Scott Wilson ma si ritrovano gli elementi del biografo di Franklin David Ritz – una potenza emozionale capace di sorprendere.
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