Incontro con Lars Gustafsson sul suo ultimo romanzo, “L’uomo sulla bicicletta blu”
Narratori svedesi «Amo il fantastico - dice lo scrittore svedese - mentre il naturalismo mi sembra restare un passo indietro se vuole rendere ragione della vita e del suo senso»
Narratori svedesi «Amo il fantastico - dice lo scrittore svedese - mentre il naturalismo mi sembra restare un passo indietro se vuole rendere ragione della vita e del suo senso»
Nella contea svedese sud-orientale del Västmanland, dove Lars Gustafsson è nato nel 1936, c’è un lago, l’Amänningen, la cui caratteristica è quella di essere pieno di stranissime secche che si estendono in tutte le possibili direzioni. «Sono come dita», racconta lo scrittore nel suo ultimo romanzo L’uomo sulla bicicletta blu (traduzione di Carmen Giorgetti Cima, postfazione di Marta Morazzoni, Iperborea, pp. 204, euro 16.00). La scena onirica descrive un viaggio autunnale notturno sulle acque del lago: secche e massi affioranti sono fermi in agguato, soli e minacciosi. Aspettano, possono aspettare anche a lungo. Finché non ottengono ciò che vogliono: infrangere la liquidità del sogno e della fantasticheria, la distruzione di un impossibile che si è fatto possibile in un mondo parallelo a quello della terraferma.
«L’arte di poter diventare qualcun altro va esercitata», dunque, «nel massimo segreto e con una certa prudenza». La terraferma è sempre in agguato, per afferrarti con le sue lunghe dita secche che vanno in ogni direzione, o per arrestare brutalmente il tuo viaggio, poiché «non c’è niente di più brutale di un dato di fatto». Protagonista ideale del romanzo di Lars Gustafsson è Janne Friberg, un commesso viaggiatore con il compito di affibbiare il prima possibile a qualcuno il rivoluzionario robot da cucina «Assistent», badando a non finire ultimo nella graduatoria dei venditori della Elektrolux Svenska Försäljningsaktiebolag, pena il licenziamento.
Per sua moglie, d’altronde, Janne è già un «fallito»: all’inizio del romanzo lo vediamo arrancare faticosamente con una bicicletta blu attraverso la ghiaia nelle regioni meridionali del Västmanland, «dove la terra è piatta e le querce sono tante». Cade in un fosso e nel tentativo (riuscito) di salvare la macchina impastatrice finisce per ferirsi lui stesso. Ripara in una grande tenuta di campagna dove, ancora una volta, anziché pensare a farsi curare, spera di riuscire a vendere il suo robot. Forse è questo che significa essere dei falliti? Janne chiede di potersi riposare e si siede su una poltrona in un salotto della casa. In quel luogo il tempo sembra essersi fermato: viene scambiato per qualcun altro, l’accordatore dello Stenway a coda nero, scostante e altero, che i proprietari stavano aspettando.
Janne cerca inizialmente di schermirsi, ma in fondo che gliene importa? E così riesce finalmente a liberarsi di «quell’opprimente e pressante sensazione di dover sempre essere qualcuno in particolare», ciò che gli sembra «il più grande inconveniente dell’essere uomo». Trova un vecchio album di fotografie seppiate degli anni venti e vi penetra come attraverso lo specchio magico di Lewis Carrol, facendo sì che la realtà viri in qualcosa di più rarefatto per diventare prima immaginazione e poi puro sogno. I personaggi delle immagini si animano e diventano parte della vita di Janne, perché in fondo «la fotografia apparteneva a lui, non al mondo imposto là fuori».
E sono proprio le fotografie il fulcro del romanzo, foto scattate dal padre sedicenne dello scrittore con una vecchia macchina a scatola una Kodak n. 2.A Brownie Model B, ritrovate soltanto di recente. Scrivere, ama ripetere Lars Gustafsson, è come fotografare schegge della vita dell’uomo; e la letteratura, come ogni forma d’arte, ha il compito di superare la realtà per giungere al fondo delle cose, un fondo che può essere limpido o torbido, proprio come le acque dell’Amänningen.
Sappiamo che lei è non soltanto uno scrittore ma anche, se non soprattutto, un filosofo. Ha studiato a Oxford con il grande filosofo del linguaggio Gilbert Ryle alla fine degli anni cinquanta e in seguito ha insegnato per molti anni «storia del pensiero europeo» a Austin, in Texas. Oltre a romanzi, drammi e poesie, ha pubblicato diversi scritti che non riguardano solo temi connessi con l’estetica, ma trattano anche di filosofia del linguaggio e di etica. Quale rapporto intrettiene la sua figura di romanziere con quella del filosofo?
Ho insegnato negli Stati Uniti per ben ventidue anni, fino al 2006, ora sono tornato a vivere in Svezia. Approdai in America nei primi anni ottanta, la mia seconda moglie era americana. Avrei potuto dedicarmi di più alla carriera accademica, come hanno fatto gran parte dei miei colleghi europei, ma ho preferito tornare. Non saprei cos’è più importante per me, se i miei lavori letterari o i miei scritti filosofici. Spesso non vedo un confine netto tra i due generi, e tendo a considerarmi un filosofo che ha fatto della letteratura uno dei suoi strumenti fino a farla diventare parte integrante della sua filosofia. D’altronde Platone scriveva dialoghi e Lucrezio ha espresso il suo pensiero attraverso un poema. In epoca moderna, gli esistenzialisti hanno esposto il loro pensiero attraverso il genere romanzesco. La mia tesi di dottorato in filosofia trattava della teoria del significato quindi il mio interesse è sempre stato rivolto principalmente a quegli autori che si sono concentrati molto sul linguaggio, sulla parola. Sono stato un attento lettore di Paul de Man per esempio, e ho sempre creduto nelle grandi potenzialità che il linguaggio ha di trasmettere non soltanto concetti, ma anche esperienze. I concetti li puoi spiegare solo mostrandoli in azione, nella realtà. Attraverso il linguaggio invece la realtà è possibile crearla, non soltanto spiegarla. Non so se ci sia un nesso, ma per esempio io non credo alla distinzione tra letteratura fantastica e naturalismo: si possono raccontare storie fantastiche con un orientamento assolutamente realistico, con dettagli presi precisamente come sono dalla realtà. Fantasie e sogni non hanno uno statuto di realtà inferiore rispetto alla realtà «vera», come d’altronde ha da tempo mostrato la psicoanalisi.
Coerentemente al fatto che uno dei temi filosofici a lei più cari riguarda il «significato», nei suoi romanzi emerge insistentemente una domanda sul «senso»: il senso dell’agire, il senso degli oggetti e in ultima istanza il senso della vita umana. Nell’«Uomo sulla bicicletta blu» lei scrive: «…pedalando in mezzo a quei campi vuoti, dove nemmeno un trattore abbandonato ricorda che fino a poco tempo fa lì c’erano uomini e animali, si può cominciare a vedere il mondo come una storia piuttosto priva di senso. L’uomo ha un vago ricordo che deve esserci stato un tempo in cui vedeva il mondo in un altro modo». Questo significa che il problema del senso cambia a seconda dei mutamenti storici e dunque non è una questione metafisica?
Io credo che le questioni relative al senso siano assolutamente di ordine metafisico, dunque slegate da un’epoca determinata. Tuttavia è vero che noi viviamo e ci poniamo le domande che ci interessano essendo «situati» in un determinato tempo. Mi rendo conto che la scrittura non riesce a star dietro alla velocità di quanto accade nella realtà, ed è perciò che, a mio parere, il naturalismo in letteratura resta sempre un passo indietro rispetto alla possibilità di rendere ragione della vita e del problema del suo senso. È per questo che ritengo importante introdurre una dimensione fantastica. Amo il simbolismo, la poetica modernista, e credo nella forza creatrice della metafora, che è in grado di rivelare, attuando un salto semantico, ciò che il realismo non è in grado di catturare anche dopo un lungo e faticoso cammino. È un salto di intuizione. Nei miei romanzi uso una tecnica che chiamerei «estetica della distrazione»: i personaggi che metto in scena divagano in continuazione, riflettono o semplicemente viaggiano mentalmente seguendo le loro libere associazioni, talvolta lo fanno entrando in un mondo diverso da quello «reale» in cui vige però comunque una logica coerente, come nei romanzi fantastici di Lewis Carrol.
Il protagonista del suo ultimo romanzo, Janne Friberg, si definisce più volte un «uomo fallito». È un commesso viaggiatore che non riesce a stare al passo con il ritmo delle vendite richieste dall’azienda: lo vediamo arrancare sulla sua bicicletta tra i campi per raggiungere villaggi rurali in cui la modernità del robot da cucina che propone stride con la mentalità dei contadini. La sensazione di fallimento che lei gli regala è in relazione con le contingenze del giudizio proveniente da un certo tipo di società o crede che sia già intrinseco alla condizione umana in quanto ineluttabilmente destinata alla morte?
Per quanto riguarda questo romanzo, credo che il giudizio della società sia determinante, d’altronde non solo Janne si considera un fallito ma così lo vede sua moglie. Però è anche vero che la sua prospettiva cambia nel corso del romanzo. Non voglio rivelare troppo a chi ancora non l’ha letto, ma al fondo di tutto sta la mia convinzione circa il fatto che ci si può salvare uscendo dai binari delle contingenze alle quali siamo relegati, perché non viviamo in una realtà a una dimensione: anche l’immaginazione, così come una diversa interpretazione della vita, sono in grado di produrre cambiamenti nella realtà in cui viviamo. In questo mio ultimo romanzo ho utilizzato come punto di partenza molte fotografie scattate da mio padre, Einar H. Gustafsson, nel 1923 con una vecchia macchina a scatola, una Kodak n. 2.A Brownie Model. Sono fotografie molto belle e molto strane: non sempre so con esattezza che cosa rappresentino, ma lo immagino, e sono in grado di creare io stesso un loro statuto di realtà. Queste immagini trasmettono una sensazione quasi onirica, sembrano rappresentare un mondo lontano, forse non del tutto reale. Ho lasciato che da queste fotografie fluisse un racconto il più possibile spontaneo. In fondo, l’uomo è un frammento nel flusso continuo della vita, proprio come un’istantanea che evoca profondità più che estensione temporale. Una bella foto è in grado di ritrarre un istante che nella sua evocatività rimanda a ciò che è eterno.
In pressoché tutti i suoi romanzi sono descritti momenti di profondo stupore, attimi estatici in cui i personaggi hanno intuizioni rivelatorie sul loro essere e, ancora, sul senso della vita.
Lei descrive molto bene questi improvvisi istanti di meraviglia, ed è a partire da qui che si accendono le digressioni dei suoi romanzi. Platone e Aristotele ci hanno insegnato che la filosofia nasce proprio dalla meraviglia dinanzi all’essere, e forse è proprio questo l’elemento più profondamente filosofico dei suoi romanzi…
Proprio così. I miei romanzi nascono tutti e si sviluppano intorno a dei momenti che contengono vere e proprie epifanie. Sono convinto che il luogo di nascita della filosofia stia nelle piccole cose, nella sorpresa, in ciò che c’è di inatteso. È una idea che mi fa sentire molto vicino al mio vecchio amico Tranströmer: i piccoli eventi, le cose più infime possono rivelare qualcosa di fondamentale, non solo dal punto di vista della novità che introducono rispetto a quanto c’era prima, ma dal punto di vista del processo di interpretazione che possono innescare, tale per cui – per esempio – sarà possibile vedere la novità in ciò che è sempre uguale, ma situato in un contesto diverso. Pensi a Nietzsche e all’intuizione estatica che c’è dietro il concepimento dello Zarathustra sulle sponde del lago di Silvaplana in Engadina.
In uno di questi suoi momenti estatici Janne Friberg avverte il fatto che, se lo vuole, può diventare un altro da sé. Può rifiutarsi di scendere dal treno e di ripartire con la sua bicicletta alla volta dei possibili acquirenti. Lei scrive che questo è un «istante di grandiosa libertà». Che cosa intende?
La libertà di Janne Friberg è una fuga mentale: il suo rapporto con quella che gli altri si ostinano a considerare la «realtà» delle cose è un rapporto «poroso». Per Janne, per esempio, anche i sogni fanno parte di questa realtà. Dover corrispondere a una certa «identità» è per lui opprimente. Ma ha un dono, l’ha sempre avuto: è in grado di «andarsene», di «annullarsi» nel suo mondo onirico o nelle sue fantasie, e anche questa è una forma di libertà: dal mio punto di vista fa parte di ciò che ha statuto di realtà. D’altronde è sempre sbagliato restare ancorati a un’idea di immutabilità della nostra vita, le cose possono cambiare. Nel mio romanzo gioco un po’ con un personaggio onirico che chiamo Chiunque: non è l’uno fra tanti, ma proprio una persona con una sua coscienza specifica, sebbene non sia legata in modo ferreo a un’identità immutabile. Janne è in fondo questo «Chiunque», vuole esserlo, e nella sua vita sognata lo può.
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